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— Uomini dalla pelle rossa?. Oh, no, cugino Dücas, no, no, questo non potrò mai crederlo! — Markezinis rise soddisfatto e convocò le figlie. — Il mondo nuovo degli spagnoli… i suoi uomini hanno la pelle rossa! Ce lo dice il cugino Dücas!

— Be’, certamente color rame — mormorai, ma Markezinis non mi udì neppure.

— Pelle rossa! Pelle rossa! E non hanno la testa, ma gli occhi e la bocca nel petto!

E un’unica gamba, che a mezzogiorno alzano sopra la testa per ripararsi dal sole! Sì!

Sì. Oh, meraviglioso nuovo mondo! Cugino, tu mi diverti!

Gli dissi che ero lieto di arrecargli quel piacere. Lo ringraziai della benevola ospitalità, e abbracciai castamente le sue figliole a una a una, e mi preparai a prendere commiato. E all’improvviso ricordai che, se il cognome dei miei antenati era stato Markezinis a partire dal secolo XIV fino al XX, nessuna di quelle ragazze poteva essere una mia antenata. I miei scrupoli di coscienza erano stati vani, se non per indicarmi dove stavano le mie inibizioni. — Hai figli maschi? — domandai al mio anfitrione.

— Oh, sì — fece lui. — Sei figli!

Che la tua stirpe possa crescere e prosperare — dissi. Partii, e col mio asino percorsi una decina di chilometri in campagna; poi lo legai a un olivo, e mi smistai giù per la linea.

XXXI

Al termine della licenza mi presentai per riprendere servizio, e partii per la mia prima missione da solo come Corriere temporale. Avevo sei turisti da guidare nel giro da una settimana. Non sapevano che era la mia prima missione. Protopopolos non aveva ritenuto opportuno informarli, e io ero d’accordo. Ma non avevo la sensazione che fosse la mia prima missione. Ero pieno di chutzpah metaxasiano. Irradiavo carisma. Non avevo paura di nulla tranne della paura.

Nella riunione preliminare spiegai ai miei sei le regole dei viaggi nel tempo, con frasi energiche e scandite. Evocai la temuta minaccia della Pattuglia temporale e li avvertii di non cambiare il passato né per incuria né di proposito. Spiegai come dovevano comportarsi per star fuori dai guai. Poi distribuii i timer e li regolai.

— Andiamo — dissi. Su per la linea.

Carisma. Chutzpah.

Jud Elliott, Corriere temporale in azione tutto da solo! Su per la linea!

— Siamo arrivati — dissi, — nel 1659 A.P., a voi più noto come anno 400. L’ho scelto in quanto è un tipico periodo bizantino arcaico. Regna l’imperatore Arcadio.

Ricorderete che nell’Istanbul del tempo attuale Haghia Sophia dovrebbe essere là, e là la moschea di Sultan Ahmed. Ebbene: è ovvio che attualmente il sultano Ahmed e la sua moschea sono una dozzina di secoli nel futuro, e la chiesa dietro di noi è l’Haghia Sophia originale, costruita quarant’anni fa quando la città era ancora molto giovane. Tra quattro anni verrà incendiata nel corso di una rivolta causata dall’esilio del vescovo Giovanni Crisostomo, ordinato dall’imperatore Arcadio perché il vescovo ne aveva criticato la moglie Eudossia. Entriamo. Come vedete, i muri sono di pietra ma il tetto è di legno…

I miei sei turisti erano un costruttore edile dell’Ohio, sua moglie, la figlia sgraziata e goffa e suo marito, più uno psichiatra siciliano e la moglie temporanea, che aveva le gambe storte: il classico assortimento di cittadini benestanti. Non sapevano distinguere un nartece da un narghilè, ma feci dar loro una buona occhiata alla chiesa e poi li guidai nella Costantinopoli di Arcadio, per preparare lo sfondo di ciò che avrebbero visto più tardi. Dopo due ore balzai giù per la linea, nel 408, per rivedere il battesimo del piccolo Teodosio.

Intravidi me stesso dall’altra parte della strada, vicino a Capistrano. Non battei ciglio. L’altro me stesso non diede segno di avermi visto. Mi chiesi se il me stesso presente stava lì anche l’altra volta, quando c’ero venuto con Capistrano. Le complicazioni del paradosso cumulativo mi opprimevano. Le scacciai dalla mente.

— Voi ora vedete le rovine della vecchia Haghia Sophia dissi. — Verrà ricostruita sotto gli auspici di questo piccino, il futuro Teodosio II, e aperta al culto il 10 ottobre 445…

Ci smistammo giù per la linea fino al 445 e assistemmo alla cerimonia dell’inaugurazione.

Vi sono due opinioni diverse circa il modo migliore di guidare un giro turistico temporale. Il metodo Capistrano consiste nel condurre i turisti in quattro o cinque eventi principali nel corso di una settimana, lasciando loro la possibilità di trascorrere molto tempo in taverne, locande, vicoli e mercati, e muovendosi tranquillamente in modo da far loro assorbire il sapore di ogni periodo. Il metodo Metaxas sta nel costruire un complesso mosaico di eventi, visitando gli stessi eventi principali ma anche altri trenta o quaranta eventi minori, passando mezz’ora qui e due ore là. Io avevo sperimentato entrambi i metodi, e prediligevo quello di Metaxas. Un serio studioso di Bisanzio preferisce la profondità all’ampiezza superficiale: ma i miei clienti non erano seri studiosi. Era meglio organizzare per loro un montaggio di Bisanzio e trascinarli vorticosamente attraverso le epoche, mostrar loro tumulti e incoronazioni, corse dei carri, l’ascesa e la caduta di monumenti e sovrani.

E così portai il piccolo gregge da un tempo all’altro, a imitazione del mio idolo Metaxas. Gli feci trascorrere un’intera giornata nella Bisanzio arcaica, come avrebbe fatto Capistrano, ma la divisi in sei smistamenti. Terminammo la giornata nel 537, nella città che Giustiniano aveva costruito sulle rovine carbonizzate di quella distrutta dall’insurrezione degli Azzurri e dei Verdi.

— Siamo arrivati al 27 dicembre — dissi. — Oggi Giustiniano inaugura la nuova Haghia Sophia. Vedete che questa cattedrale è molto più grande delle precedenti: un edificio gigantesco, una delle meraviglie del mondo. Giustiniano ha speso, per costruirla, l’equivalente di centinaia di milioni di dollari.

— Ed è quella che esiste ancora oggi a Istanbul? — domandò dubbioso il genero del costruttore.

— Sostanzialmente sì. Qui però non ci sono i minareti: li hanno aggiunti i mussulmani, naturalmente, dopo aver trasformato la chiesa in moschea; e non sono ancora stati costruiti neppure i contrafforti gotici. Inoltre la grande cupola che vedete qui non è quella che conoscete. Questa è più piatta e ampia dell’attuale. I calcoli di spinta dell’architetto risulteranno errati: mezza cupola crollerà nel 558, dopo che i terremoti avranno indebolito gli archi. Questo lo vedrete domani. Guardate, arriva Giustiniano.

Un po’ prima, quel giorno, avevo mostrato loro il frastornato Giustiniano del 532, che cercava di domare l’insurrezione dell’ippodromo. L’imperatore che apparve ora, su un carro trainato da quattro enormi cavalli neri, sembrava invecchiato di ben più di cinque anni: era più grasso e florido, ma sembrava anche immensamente più sicuro di sé, un personaggio di suprema autorità. Ed era comprensibile, poiché aveva vinto la tremenda sfida al suo potere rappresentata dalle ribellioni e aveva ricostruito la città, rendendola straordinariamente splendida.

Senatori e duchi gli facevano ala: noi restammo rispettosamente in disparte, tra i comuni cittadini. Preti, diaconi, diaconesse, suddiaconi e cantori, avvolti in paramenti costosi, attendevano il corteo imperiale. Si levavano al cielo inni secondo lo stile antico. Il patriarca Menos apparve alla colossale porta imperiale della chiesa; Giustiniano smontò; patriarca e imperatore, tenendosi per mano, entrarono, seguiti dagli alti dignitari dello stato.

— Secondo una cronaca del decimo secolo — dissi, — Giustiniano è rimasto sopraffatto dall’emozione quando è entrato nella sua nuova Haghia Sophia.

Affrettatosi a raggiungere l’abside, ha ringraziato Dio che gli aveva concesso di realizzare un simile edificio e ha esclamato: «Ti ho superato, Salomone!». Il Servizio temporale ha ritenuto che fosse interessante, per i visitatori di quest’epoca, ascoltare questa frase celebre, e perciò qualche anno fa abbiamo sistemato un Orecchio proprio accanto all’altare. — Mi frugai nelle vesti. — Ho portato un altoparlante che ci trasmetterà le parole di Giustiniano mentre si avvicina all’abside. Ascoltate.