Perplessità sconcertata.
— Sentite, se potessi vi ci porterei — dissi. — Ma non posso. È la legge. Nessuno può entrare in un’epoca di epidemia se non con un’ autorizzazione speciale, che io non sono in grado di fornirvi.
Li portai nel 1385 e mostrai loro il declino di Costantinopoli: popolazione ridotta entro le grandi mura, interi quartieri deserti, chiese che andavano in rovina. I turchi stavano distruggendo la campagna circostante. Condussi i miei turisti sulle mura, dietro il quartiere di Blachernae, e mostrai loro i cavalieri del sultano che scorrevano le campagne, oltre i confini della città. Il mio amico dell’Ohio mostrò loro i pugni.
— Barbari bastardi! — gridò. — Feccia della Terra!
Scendemmo giù per la linea, nel 1398. Mostrai loro l’Anadolu-Hisari, la fortezza del sultano Beyazit sulla sponda asiatica del Bosforo. La foschia estiva impediva di vedere bene, perciò ci smistammo di qualche mese, in autunno, per osservarla. Di nascosto facemmo passare dall’uno all’altro un piccolo binocolo. Apparvero due vecchi monaci bizantini, videro il binocolo prima che io potessi afferrarlo e nasconderlo, e vollero sapere cos’era quello strumento.
— Aiuta la vista — dissi io, e ce ne andammo in fretta.
Nell’estate del 1422 vedemmo l’esercito del sultano Murat II avventarsi contro le mura della città. Circa ventimila turchi avevano incendiato i villaggi e i campi intorno a Costantinopoli, massacrato gli abitanti, sradicato le viti e gli olivi; e adesso li vedevamo mentre tentavano di penetrare nella città. Accostarono macchine d’assedio alle mura, misero in azione arieti, catapulte giganti, tutta l’artiglieria pesante dell’epoca. Portai i miei turisti vicino alla linea dei combattimenti, a godersi lo spettacolo.
La tecnica usuale, per fare questo, consiste nel mascherarsi da pellegrini. I pellegrini possono andare dappertutto, perfino al fronte. Distribuii croci e icone, insegnai a tutti come darsi un’aria devota, e li guidai, cantilenando e intonando inni.
Non c’era speranza di indurli a cantare autentici inni bizantini, naturalmente, perciò dissi loro di cantare tutto quello che volevano purché gli dessero una cadenza seria e pia. Quelli dell’Ohio intonarono a ripetizione The star spangled banner, e lo psichiatra e la sua amica cantarono arie di Verdi e Puccini. I difensori bizantini indugiavano nelle loro fatiche per salutarci a cenni. Noi rispondevamo ai saluti e facevamo il segno della Croce. — E se venissimo uccisi? — domandò il genero.
— Non c’è pericolo. Non in modo permanente, comunque. Se veniste colpiti chiamerei la Pattuglia temporale, che vi tirerebbe fuori da qui cinque minuti fa.
Il genero aveva l’aria frastornata.
— Celeste Aida, forma divina…
— … so proudly we hailed…
I bizantini si battevano come indemoniati per tener fuori i turchi. Rovesciavano loro addosso fuoco greco e olio bollente, recidevano tutte le teste che spuntavano oltre le mura, resistevano alla furia dell’artiglieria. Tuttavia sembrava inevitabile che la città cadesse prima del tramonto. Scesero le ombre della sera.
— State a vedere — dissi.
In molti punti lungo le mura divamparono le fiamme. I turchi bruciavano le loro macchine d’assedio e si ritiravano!
— Perché? — domandarono i miei turisti. — Ancora un’ora e prenderanno la città.
— Gli storici bizantini — spiegai, — hanno scritto in seguito che era avvenuto un miracolo. La Vergine Maria era apparsa, avvolta in un manto violetto e in una luce abbagliante, camminando lungo le mura. I turchi, in preda al terrore, si erano ritirati.
— Dove? — volle sapere il genero. — Io non ho visto miracoli! Non ho visto la Vergine Maria!
— Forse dovremmo tornare indietro di mezz’ora e guardare meglio — disse vagamente sua moglie.
Spiegai che in realtà nessuno aveva visto sui bastioni la Vergine Maria; invece i messaggeri avevano portato al sultano Murad la notizia di un’insurrezione in Asia Minore, e temendo di rimanere tagliato fuori e assediato a Costantinopoli se fosse riuscito a prenderla, il sultano aveva fermato immediatamente le operazioni per accorrere a schiacciare la rivolta a oriente. Quelli dell’Ohio rimasero delusi. Penso che tenessero moltissimo a vedere la Vergine Maria. — L’abbiamo vista nel viaggio dell’anno scorso borbottò il genero.
— Ma era diverso disse sua moglie. — Quella era vera, non un miracolo!
Regolai i timer e ci smistammo giù per la linea.
Alba del 5 aprile 1453. Attendemmo il levar del sole sui bastioni di Bisanzio.
— La città è ormai isolata — dissi. — Il sultano Maometto il Conquistatore ha costruito la fortezza di Rumeli Hisari sulla sponda europea del Bosforo. I turchi stanno avanzando. Guardate e ascoltate.
Spuntò il sole. Guardammo oltre il muro. Si levò un grido assordante. — Oltre il Corno d’Oro ci sono le tende dei turchi — dissi. — Sono 200 mila. Nel Bosforo ci sono 493 navi turche. Ci sono ottomila difensori bizantini e quindici navi. L’Europa cristiana non ha inviato aiuti alla cristiana Bisanzio: solo settecento soldati e marinai genovesi agli ordini di Giovanni Giustiniani. — Indugiai sul nome dell’ultimo difensore di Bisanzio, sottolineando gli echi del passato: — Giustiniani…
Giustiniano… — Nessuno se ne accorse. — Bisanzio sta per essere gettata ai lupi proseguii. — Sentite il clamore dei turchi?
La famosa catena era stata tesa attraverso il Corno d’Oro e ancorata alle rive: grandi tronchi arrotondati, uniti da ganci di ferro, che avevano lo scopo di chiudere il porto agli invasori. Già una volta non era servita a nulla, nel 1204: adesso era più robusta.
Balzammo giù per la linea al 9 aprile e vedemmo i turchi avvicinarsi alle mura.
Passammo al 12 aprile, e vedemmo il grande cannone turco, il Reale, che entrava in azione. Un cristiano traditore, Urbano d’Ungheria, l’aveva costruito per i turchi: cento coppie di buoi l’avevano trainato nei pressi della città; la canna, del diametro di novanta centimetri, sparava proiettili di granito da seicento chili. Vedemmo una lingua di fiamma, uno sbuffo di fumo, e poi una mostruosa sfera di pietra sollevarsi pigramente, lentamente, e cozzare contro il muro con la forza di un terremoto, alzando una nube di polvere. Il tonfo scosse l’intera città: l’esplosione ci echeggiò negli orecchi. — Possono sparare con il Reale solo sette volte al giorno — dissi.
— Occorre molto tempo per caricarlo. E ora guardate questo.
— Andammo avanti di una settimana. Gli invasori erano raccolti intorno al gigantesco cannone, e si preparavano a sparare. Accostarono la torcia: il cannone esplose con uno spaventoso bagliore di fiamme, lanciando enormi pezzi di canna che falciarono i turchi. C’erano cadaveri dappertutto. I bizantini acclamavano dalle mura.
— Tra i morti dissi, — c’è anche Urbano d’Ungheria. Ma presto i turchi costruiranno un altro cannone.
Quella sera i turchi aggredirono le mura: noi osservammo la scena cantando America the beautiful e arie dell’ Otello, mentre i valorosi genovesi di Giovanni Giustiniani li respingevano. Sopra di noi sibilavano le frecce; alcuni bizantini sparavano con fucili ingombranti e imprecisi.
Presentai così brillantemente l’assedio finale che piansi del mio virtuosismo.
Mostrai ai miei turisti battaglie navali, scontri a corpo a corpo sulle mura, preghiere in Haghia Sophia. Mostrai loro i turchi che astutamente trasportavano le proprie navi per via di terra, su rulli di legno, dal Bosforo al Corno d’Oro, per aggirare la famosa catena; e mostrai loro il terrore dei bizantini quando l’alba del 23 aprile rivelò settantadue navi da guerra turche all’ancora nel porto, e mostrai i genovesi che le sconfiggevano eroicamente.