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Se avessimo tempo vi condurrei nel 1097, e oltre il mare, a vedere le montagne di ossa sparse lungo la strada. Questa è stata la sorte della Crociata del Popolo. Ma i professionisti sono in viaggio, e tra poco li vedremo.

Parlai dei quattro eserciti dei crociati: l’armata di Raimondo di Tolosa, quella del duca Roberto di Normandia, quella di Boemondo e Tancredi, e quella di Goffredo di Buglione, Eustace di Boulogne e Baldovino di Lorena. Alcuni dei miei turisti, che avevano letto la storia delle Crociate, annuirono, riconoscendo i nomi.

Ci smistammo all’ultima settimana del 1096.

— Alessio — spiegai, — ha imparato la lezione della Crociata del Popolo. Non ha intenzione di permettere ai veri crociati di sostare a lungo a Costantinopoli. Dovranno passare tutti da Bisanzio per raggiungere la Terrasanta, ma l’imperatore intende liberarsene in fretta e prima di lasciarli entrare pretenderà dai loro capi un giuramento di fedeltà.

Guardammo l’esercito di Goffredo di Buglione che si accampava davanti alle mura. Osservammo i messi che andavano avanti e indietro: Alessio pretendeva il giuramento di fedeltà, Goffredo lo rifiutava. Con un abile montaggio coprii quattro mesi in meno di un’ora, mostrando l’intensificarsi della diffidenza e dell’ostilità fra i crociati cristiani e i cristiani bizantini, che pure avrebbero dovuto collaborare alla liberazione della Terrasanta. Goffredo rifiutava ancora di giurare fedeltà; Alessio non solo teneva i crociati chiusi fuori Costantinopoli ma aveva ordinato il blocco del loro campo, sperando che la fame li costringesse ad andarsene. Baldovino di Lorena cominciò a fare scorrerie nei sobborghi; Goffredo catturò un plotone di soldati bizantini e li mise a morte in vista delle mura della città. E il 2 aprile i crociati cominciarono ad assediare Costantinopoli.

— Osservate con quanta facilità li respingono i bizantini — dissi.

— Alessio ha perso la pazienza e ha inviato in battaglia le sue truppe migliori. I crociati, non ancora abituati a combattere insieme, fuggono. La domenica di Pasqua, Goffredo e Baldovino si sottomettono e giurano fedeltà ad Alessio. Ormai è tutto a posto. L’imperatore offrirà ai crociati un banchetto a Costantinopoli, e poi li traghetterà in fretta e furia oltre il Bosforo. Sa che tra pochi giorni arriveranno altri crociati: l’esercito di Boemondo e di Tancredi.

Marge Hefferin lanciò uno squittio soffocato nell’udire quei nomi. Avrei dovuto stare in guardia.

Balzammo al 10 aprile per dare un’occhiata alla nuova infornata di crociati. Altre migliaia di soldati si accamparono davanti a Costantinopoli. Camminavano con fare arrogante, con le maglie di ferro e le sopravvesti, e quando si annoiavano si battevano scherzosamente tra loro con spade e mazze.

— Qual è Boemondo? — domandò Marge Hefferin.

Scrutai attento il campo. — Là — dissi.

— Ooooh…

Era davvero imponente. Alto circa due metri, un gigante per quei tempi, sovrastava di tutta la testa e le spalle quelli che gli stavano intorno. Spalle larghe, torace ampio, capelli tagliati corti. Pelle stranamente bianca. Portamento arrogante. Un brutto tipo, duro e feroce.

Ed era anche più furbo degli altri comandanti. Invece di litigare con Alessio per la questione del giuramento di fedeltà, cedette immediatamente. Per lui i giuramenti erano soltanto parole, ed era assurdo stare a bisticciare con i bizantini quando in Asia c’erano imperi da conquistare. Perciò Boemondo si guadagnò rapidamente l’accesso a Costantinopoli. Portai i miei turisti alla porta da cui doveva entrare in città, perché potessero vederlo da vicino. Un errore.

I crociati arrivarono grandiosamente a piedi, affiancati a sei per sei.

Quando comparve Boemondo, Marge Hefferin si staccò dal gruppo. Si strappò la tunica, facendo ballonzolare allo scoperto i grossi seni pallidi. A scopo pubblicitario, immagino.

Si precipitò verso Boemondo, strillando: — Boemondo, Boemondo, ti amo, ti ho sempre amato, Boemondo! Prendimi! Fa’ di me la tua schiava, adorato! — E altre frasi del genere.

Boemondo si girò e la guardò sconcertato. Penso che la vista di una scatenata femmina seminuda e urlante che correva all’impazzata verso di lui lo frastornasse.

Ma Marge non ce la fece ad arrivare a meno di cinque metri da lui.

Un cavaliere che precedeva Boemondo, convinto che quello fosse un tentativo di assassinio, sfoderò il pugnale e lo piantò prontamente tra i grossi seni di Marge.

L’urto arrestò la folle carica, e lei arretrò barcollando e aggrottando la fronte. Il sangue le sgorgò dalle labbra. Mentre cadeva, un altro cavaliere vibrò un fendente con lo spadone e la tagliò quasi in due all’altezza della vita. Le viscere si sparsero sul selciato.

L’intera scena si svolse in quindici secondi circa. Io non ebbi il tempo di muovermi. Restai lì, agghiacciato, rendendomi conto che la mia carriera di Corriere temporale poteva essere finita in quel momento. Perdere un turista è la cosa peggiore che un Corriere possa fare, a parte il commettere un cronoreato.

Dovevo agire in fretta.

Intimai ai miei turisti: — Che nessuno si muova! È un ordine!

Era improbabile che disubbidissero. Erano intruppati insieme, in preda all’isterismo: singhiozzavano e rabbrividivano e vomitavano. Il trauma sarebbe bastato a tenerli lì inchiodati per alcuni minuti: più che abbastanza, per me.

Regolai il mio timer per un balzo di due minuti su per la linea e mi affrettai a smistarmi.

Mi trovai immediatamente ritto dietro me stesso. Ero là, con gli orecchi a sventola e tutto, e guardavo Boemondo che avanzava per la strada. I miei turisti erano schierati ai miei fianchi. Marge Hefferin, ansimando, alzandosi in punta di piedi per veder meglio il suo idolo, stava già cominciando a slacciarsi la tunica.

Mi piazzai in posizione, dietro di lei.

Proprio mentre compiva il primo movimento verso la strada, tesi fulmineamente le mani, le abbrancai il didietro con la sinistra, le misi la destra sul seno e le sibilai all’orecchio: — Resti dov’è, altrimenti dovrà pentirsene.

Lei si agitò e si divincolò. Piantai ancor più saldamente le dita nella carne del suo fremente deretano, e non mollai. Lei si dibatté, girandosi per vedere chi era l’aggressore: vide che ero io, e fissò sbalordita l’altro me stesso a pochi passi sulla sua sinistra. Si spompò di colpo. Barcollò, e io le sussurrai di nuovo di star ferma; poi Boemondo ci passò davanti e andò oltre.

Lasciai andare Marge Hefferin, regolai il mio timer, e scesi di sessanta secondi giù per la linea.

La mia assenza totale era durata meno di sessanta secondi. Mi aspettavo quasi di trovare i miei turisti ancora intenti a vomitare sui resti sanguinanti di Marge Hefferin.

Ma la revisione era riuscita. Adesso per la strada non c’era nessun cadavere, non c’erano budella sparse sotto gli stivali dei crociati in marcia. Marge era insieme agli altri della comitiva, e scrollava la testa, confusa, massaggiandosi il didietro. La tunica era ancora aperta, e io potei vedere le impronte arrossate delle mie dita sul soffice globo del suo seno sinistro.

Qualcuno sospettava quanto era accaduto? No. No. Neppure un ricordo fantasma. I miei turisti non avevano fatto l’esperienza del paradosso del transito perché non avevano compiuto il balzo nel balzo come me: perciò io solo ricordavo ciò che ora era sparito dalle loro menti, io solo potevo rammentare con chiarezza l’evento sanguinoso che avevo trasformato in un non-evento.

— Giù per la linea! — gridai, e li smistai tutti nel 1098.

La strada era tranquilla. I crociati se n’erano andati da un pezzo, e in quel momento erano in Siria ad assediare Antiochia. Era il crepuscolo di un’afosa giornata d’estate, e non ci furono testimoni al nostro arrivo improvviso.

Marge era l’unica a rendersi conto che era accaduto qualcosa di strano; gli altri non avevano visto niente d’insolito, ma lei sapeva chiaramente che un secondo Jud Elliott si era materializzato alle sue spalle e le aveva impedito di precipitarsi in mezzo alla strada.