Le campane suonavano una plumbea nenia funebre, per tutto il giorno e per metà della notte. Il mondo era un funerale perpetuo. Una tetra foschia incombeva su Londra: per tutto il tempo del nostro soggiorno il cielo fu sempre grigio, cinereo. Non che la natura esprimesse il proprio dolore, come vuole l’arcaica attribuzione letteraria di sentimenti umani alle cose inanimate: no, la foschia era causata dall’uomo, perché migliaia di piccoli incendi ardevano in tutta l’Inghilterra consumando le vesti e le case e i corpi delle vittime.
Vedemmo vittime della peste in tutti gli stadi, dai primi barcollii alle successive fasi di tremiti e sudori e cadute e convulsioni. — L’inizio della malattia — disse Riley con calma, spassionatamente, — è segnato dall’indurimento e dal gonfiore delle ghiandole alle ascelle e all’inguine. Le tumefazioni raggiungono rapidamente la grandezza di uova o mele. Ecco, guardate questa donna. — Era giovane, stravolta, in preda al terrore. Stringendo disperatamente i bubboni che cominciavano a spuntarle, ci passò accanto barcollando e si dileguò nelle strade fumose.
— Poi — proseguì Riley, — vengono le chiazze nere: prima sulle braccia e le cosce, e infine in tutto il corpo. E le pustole, che non danno sollievo neppure se vengono incise. E poi il delirio, la demenza, la morte, sempre al terzo giorno dopo la comparsa dei gonfiori. Osservate qui… — Una vittima agli ultimi stadi, abbandonata a se stessa, che gemeva per la via. — E là… — Volti pallidi, affacciati a una finestra.
— E laggiù… — Cadaveri ammucchiati sulla porta di una stalla.
Le case erano sbarrate. I negozi erano chiusi. Per le strade si aggiravano solo le persone già infettate, che vagavano disperatamente alla ricerca di un medico, un sacerdote, un taumaturgo.
Da lontano ci giunse una musica spezzata, tormentata: flauti, tamburi, viole, liuti, cennamelle, trombe, corni, tutti gli strumenti medioevali che non emettevano il grazioso suono di quell’epoca ma un gemito e uno stridio aspri e discordi. Riley apparve contento. — Sta arrivando una processione di flagellanti! — esclamò, euforico. —Seguitemi! Non dobbiamo assolutamente perderla!
Per le strade tortuose avanzavano i flagellanti, uomini e donne nudi fino alla cintola, sporchi, insanguinati, alcuni intenti a suonare gli strumenti; quasi tutti impugnavano fruste a nodi e sferzavano, sferzavano, avventando colpi instancabili su spalle nude, petti, guance, braccia, fronti. Cantilenavano inni stonati; gemevano di dolore; camminavano barcollando, alcuni mostrando già i bubboni della peste; e senza guardarci passarono oltre, infilandosi in uno squallido vicolo che portava a una chiesa deserta.
E noi, felici turisti temporali, procedemmo tra i morti e i morenti e andammo oltre, perché il nostro Corriere voleva farci assaporare profondamente quell’esperienza.
Vedemmo annerirsi e scoppiare i cadaveri gettati sulle pire.
Vedemmo altri mucchi di corpi insepolti lasciati nei campi a imputridirsi.
Vedemmo ladri che perquisivano i morti per derubarli di eventuali oggetti preziosi.
Vedemmo in una strada un uomo appestato buttarsi su una donna semisvenuta e altrettanto appestata e aprirle le cosce per un ultimo disperato atto di libidine.
Vedemmo sacerdoti a cavallo fuggir via dai loro fedeli che invocavano la misericordia celeste.
Entrammo in un palazzo indifeso e vedemmo alcuni chirurghi terrorizzati che salassavano un duca moribondo.
Ci vedemmo tagliare la strada da un’altra processione di strani esseri nerovestiti come noi, i volti nascosti dietro una lamina dalla superficie speculare: rabbrividimmo alla vista grottesca di quei marciatori da incubo, di quei demoni senza volto, e soltanto a poco a poco ci rendemmo conto di aver incrociato un’altra comitiva di turisti.
Riley ci sfornava gelide statistiche. — Il tasso di mortalità della peste — annunciò, — ha oscillato fra un ottavo e i due terzi della popolazione di ogni data area. Si calcola che in Europa sia perito il venticinque per cento dell’intera popolazione; in tutto il mondo, la mortalità è stata di circa il trentatré per cento. Al giorno d’oggi un’epidemia come questa ucciderebbe più di due miliardi di persone.
Vedemmo una donna uscire da una casetta dal tetto di paglia e deporre in strada a uno a uno i corpi di cinque bambini affinché gli incaricati li portassero via.
Riley disse: — L’aristocrazia è stata annientata, il che ha causato grandi sconvolgimenti nelle linee di successione ereditaria. Si sono avuti effetti culturali permanenti in seguito alla morte in blocco di pittori di una data scuola, di poeti, di monaci colti. L’effetto psicologico è stato duraturo: per molte generazioni si è creduto che il secolo quattordicesimo avesse fatto qualcosa per meritarsi l’ira di Dio, e ci si aspettava da un momento all’altro che tutto ricominciasse.
Costituimmo l’intero pubblico di un funerale collettivo, mentre due preti giovani e spaventati mormoravano preghiere su cento cadaveri gonfi e anneriti, agitavano le campanelle, aspergevano l’acqua santa, e facevano cenno ai sagrestani di accendere la pira.
Soltanto all’inizio del secolo sedicesimo — disse Riley — la popolazione ritornerà ai livelli anteriori al 1348.
Mi era impossibile capire che effetto facessero agli altri quegli orrori, poiché eravamo nascosti dalla tuta. Probabilmente molti miei compagni erano affascinati ed eccitati. Mi hanno detto che i veri tifosi della peste compiono abitualmente tutti e quattro i giri della Morte Nera, in successione, partendo dalla Crimea; molti hanno fatto l’intera serie cinque o sei volte. La mia reazione fu un trauma sempre meno intenso. All’orrore mostruoso si finisce con l’abituarsi. Credo che alla decima volta sarei stato sereno e spassionato quanto il Corriere Riley, fonte traboccante di statistiche.
Al termine del nostro viaggio attraverso l’inferno ci dirigemmo a Westminster.
Sulla pavimentazione, davanti al palazzo, quelli del Servizio temporale avevano dipinto un cerchio rosso di cinque metri di diametro. Era il nostro trampolino di lancio. Ci radunammo al centro. Aiutai Riley a regolare i timer: in questi giri, sono montati all’ esterno della tuta. Poi lui diede il segnale, e ci smistammo.
Due vittime della peste, che si trascinavano penosamente davanti al palazzo, videro la nostra partenza. Non credo che lo spettacolo le abbia turbate molto. In un momento in cui periva il mondo intero, chi poteva agitarsi alla vista di dieci demoni neri che svanivano?
XLI
Emergemmo sotto una cupola scintillante, restituimmo le tute contaminate, e uscimmo purificati e nobilitati da ciò che avevamo visto. Ma io continuavo a essere ossessionato da immagini di Pulcheria. Irrequieto, tormentato, lottai contro la tentazione.
Ritornare nel 1105? Lasciare che Metaxas m’infilasse in casa di Dücas? Andare a letto con Pulcheria e placare le mie brame? — No. No, No. No.
Combatti la tentazione. Sublima. Scopa un’imperatrice, invece.
Tornai in fretta a Istanbul e mi smistai su per la linea fino al 537. Andai ad Haghia Sophia, per cercare Metaxas alla cerimonia della consacrazione.
Metaxas era presente, in molte parti della folla. Ne individuai almeno dieci. (Vidi anche due Jud Elliott, e senza neppure sforzarmi). Ma ai primi due tentativi m’imbattei nel paradosso della discontinuità: nessuno dei due Metaxas mi riconobbe.
Uno mi scacciò con una smorfia irritata; l’altro disse semplicemente: — Chiunque tu sia, non ci siamo ancora incontrati. Fila. — Al terzo tentativo trovai un Metaxas che mi riconobbe, e combinammo di vederci quella sera alla locanda dove avrebbe alloggiato la sua comitiva: giù per la linea, nel 610, perché doveva mostrare ai suoi turisti l’incoronazione dell’imperatore Eraclio.
— Qual è la tua base in tempo attuale? — mi domandò quando ci rivedemmo.