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— Inizio di dicembre del 2059.

— Sono più avanti di te — osservò. — Io vengo dalla metà di febbraio del 2060.

Siamo discontinui.

Mi spaventai. Quell’uomo conosceva due mesi e mezzo del mio futuro. L’etichetta gli imponeva di tenere per sé quella conoscenza: era perfettamente possibile che io sarei/fossi stato ucciso nel gennaio 2060, e che questo Metaxas fosse al corrente dei particolari, ma lui non poteva farmelo capire. Comunque quella lacuna mi spaventava.

Se ne rese conto. — Vuoi tornare indietro e trovare un altro me stesso? — propose.

— No. Va bene così. Penso che possiamo arrangiarci.

Il suo volto era una maschera impassibile. Si atteneva ai regolamenti: non avrebbe reagito né con un’inflessione della voce né con un’espressione che potesse rivelarmi il mio futuro.

— Una volta mi hai detto che mi avresti aiutato ad arrivare all’ imperatrice Teodora.

— Lo ricordo, sì.

— Allora ho rifiutato. Adesso mi piacerebbe provare.

— Non è un problema — disse Metaxas. — Balziamo su fino al 535. Giustiniano sarà occupato con la costruzione di Haghia Sophia. Teodora è disponibile.

— Così facile?

— È una cosa da nulla — disse Metaxas.

Ci smistammo. In una fresca giornata primaverile del 535 mi recai con Metaxas al Grande Palazzo, dove lui cercò e scovò un individuo grasso, dall’aria di eunuco, che si chiamava Anastasio: ebbe con lui una discussione lunga e animata. Evidentemente Anastasio era il ruffiano principale dell’imperatrice, in quell’anno, e aveva il compito di trovarle da uno a dieci uomini giovani per notte. La conversazione si svolse a mormorii sommessi, intervallati da scoppi indignati: ma da quel po’ che riuscii ad afferrarne, capii che Anastasio mi offriva un’ora con Teodora mentre Metaxas insisteva per avere un’intera notte. Mi sentii innervosire. Sono virile, certo, ma sarei riuscito a tener testa dal tramonto all’alba alla più celebre ninfomane della storia?

Segnalai a Metaxas di accettare qualcosa di meno grandioso; ma lui insistette, e alla fine Anastasio acconsentì a farmi passare quattro ore con l’imperatrice.

— Se si dimostra all’altezza — aggiunse.

La prova di ammissione si svolse a cura di una ragazza piccola e feroce, Fozia, una delle imperiali dame di compagnia. Anastasio, compiaciuto, ci osservò in azione: Metaxas ebbe almeno il buongusto di uscire dalla stanza. Penso che Anastasio dovesse accontentarsi di fare il guardone.

Fozia aveva i capelli neri, le labbra sottili, il busto florido, l’indole vorace. Avete mai visto una stella marina divorare un’ostrica? No. Be’, almeno immaginatelo. Fozia era una stella marina del sesso. La soluzione fu fantastica. Le tenni testa, lottai con lei fino a sottometterla, la mandai in estasi. E superai la prova, immagino, con un margine di riserva, perché Anastasio mi approvò e mi assegnò il tempo da passare con Teodora. Quattro ore.

Ringraziai Metaxas e quello se ne andò, balzando giù per la linea a raggiungere la sua comitiva nel 610.

Anastasio si occupò di me. Venni lavato, pettinato, strigliato, costretto a inghiottire una pozione oleosa e amara che a suo dire era afrodisiaca. E un’ora prima di mezzanotte venni introdotto nella camera da letto dell’imperatrice Teodora.

Cleopatra… Dalila… Lucrezia Borgia… Teodora.

Erano mai esistite? La loro dissolutezza leggendaria era vera? Era possibile che fossi proprio io, Judson Daniel Elliott III, colui che stava davanti al letto della depravata imperatrice di Bisanzio?

Sapevo di lei ciò che ne racconta Procopio. Le orge ai pranzi ufficiali. Le esibizioni nel teatro. Le ripetute gravidanze illegittime. Gli amici e gli amanti traditi e torturati. Gli orecchi, i nasi, i testicoli, i peni, gli arti e le labbra fatti mozzare a coloro che non la soddisfacevano. L’offerta di tutti i suoi orifici sull’altare di Afrodite. Se era vera anche una sola su dieci, delle storie narrate su di lei, la sua depravazione era inarrivabile.

Era pallida, con una bella carnagione, i seni grandi, la vita sottile; ed era sorprendentemente piccola: con la testa mi arrivava appena al petto. Aveva la pelle intrisa di profumi, e tuttavia da lei esalavano inconfondibili gli odori della carne. Gli occhi erano fiammeggianti, freddi, duri, un po’ ipertiroidei: occhi da ninfomane.

Non mi domandò neppure come mi chiamavo. Mi ordinò di spogliarmi, mi ispezionò, e annuì. Un’ancella ci portò un denso vino oleoso in un’enorme anfora. Ne bevemmo parecchio; poi Teodora si spalmò addosso il resto, cospargendosene la pelle dalla fronte alle dita dei piedi.

— Leccalo — disse.

Ubbidii. Ubbidii anche ad altri comandi. Aveva gusti straordinariamente vari, e in quattro ore li soddisfeci quasi tutti. Forse non furono le quattro ore più piacevoli della mia vita, ma quasi. Eppure il suo fare pirotecnico mi agghiacciava. C’era qualcosa di meccanico nel modo in cui Teodora m’imponeva di fare ora questo, ora quello, ora quell’altro. Sembrava che seguisse un copione recitato un milione di volte.

Fu una cosa interessante e impegnativa. Ma non sconvolgente. Voglio dire: in un certo senso mi aspettavo di più, dato che ero a letto con una delle più famose peccatrici della storia.

Quando avevo quattordici anni, un vecchio che mi aveva insegnato molto sul modo di stare al mondo mi disse: — Figliolo, quando te ne sei fatta una le hai fatte tutte.

Allora avevo perduto da poco la verginità, ma avevo avuto il coraggio di dissentire.

Dissento ancora oggi, in un certo senso, ma sempre meno a ogni anno che passa. Le donne variano: nella figura, nella passione, nella tecnica, nei preliminari. Ma io ho avuto l’imperatrice di Bisanzio: badate bene, Teodora in carne e ossa. E comincio a credere, dopo Teodora, che quel vecchio aveva ragione. Quando te ne sei fatta una, le hai fatte tutte.

XLII

Tornai giù per la linea fino a Istanbul e mi presentai per prendere servizio, dopodiché guidai una comitiva di otto persone nel giro da due settimane.

Né la Morte Nera né Teodora erano servite a distruggere la mia passione per Pulcheria Dücas. Ora speravo di liberarmi da quella pericolosa ossessione riprendendo il mio lavoro.

La comitiva comprendeva le seguenti persone:

J. Frederick Gostaman di Biloxi, Mississippi, commerciante di farmaceutici e organi per trapianti, con la moglie Louise, la figlia sedicenne Palmyra e il figlio quattordicenne Bilbo.

Conrad Sauerabend di St. Louis, Missouri, agente di cambio, che viaggiava da solo.

Hester Pistil di Brooklyn, New York, una giovane insegnante.

Leopold Haggins di St. Petersburg, Florida, industriale elettrico ritiratosi dagli affari, e sua moglie Chrystal.

Insomma, la solita infornata di sfaccendati danarosi e sottoistruiti. Sauerabend (che era grasso, provvisto di pappagorgia, e torvo) prese immediatamente in antipatia Gostaman (che era grasso, provvisto di pappagorgia, e gioviale) perché Gostaman aveva fatto un commento scherzoso sul modo in cui Sauerabend sbirciava dentro la scollatura della figlia dello stesso Gostaman, durante una delle sedute d’orientamento. Almeno, io credo che Gostaman scherzasse: ma Sauerabend diventò paonazzo e furioso, e Palmyra, che sebbene avesse sedici anni era poco sviluppata e ne dimostrava tredici, corse via piangendo. Io rimediai in qualche modo, ma Sauerabend continuò a fissare in cagnesco Gostaman. La Pistil, l’insegnante, una bionda dallo sguardo assente, con un seno maiuscolo e un’espressione nel contempo tesa e languida, fece capire chiaramente fin dal primo incontro di essere quel tipo di donna che fa questi viaggi per andare a letto con i Corrieri: anche se non avessi avuto la mente piena di Pulcheria non credo che avrei approfittato dell’occasione, ma così come stavano le cose provavo ben poco desiderio di esplorare la pelvi della signorina Pistil. Il caso era diverso per il giovane Bilbo Gostaman, un figurino che portava calzoni alla zuava con l’inguine imbottito (se hanno riesumato i corpetti alla cretese, perché non i coprigenitali?) e che durante la seconda seduta di orientamento infilò la mano sotto la gonna della Pistil. Lui credeva che nessuno se ne accorgesse, ma io lo vidi; e lo vide anche Gostaman padre, che divenne raggiante di orgoglio paterno, e anche Chrystal Haggins, che ne fu così scandalizzata da andare in catalessi. La Pistil sembrava eccitata, e si muoveva un po’ per offrire a Bilbo una migliore possibilità di brancicare. Nel frattempo Leopold Haggins che aveva ottantacinque anni ed era tutto rughe, strizzava speranzosamente l’occhio a Louise Gostaman, un tipo di donna placida e matronale, che poi avrebbe trascorso quasi tutto il viaggio a respingere le tremule arditezze del vecchio mandrillo. Avrete già capito la situazione.