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Tenni a bada Eudocia, che aveva bevuto troppo e aveva voglia di una sveltina in una sala isolata. (Infine scelse Basilio Diogenes, che doveva avere settant’anni). Risposi evasivamente a molte domande sul conto di mio «cugino» Metaxas, che tutti conoscevano ma le cui origini erano un mistero per tutti. E poi, tre ore dopo il mio arrivo, mi accorsi che finalmente stavo parlando con Pulcheria.

Eravamo in un angolo della grande sala, rischiarato da due candele agonizzanti.

Lei era arrossata in volto, eccitata, perfino agitata: i seni le si sollevavano, e una fila di goccioline le imperlava il labbro superiore. Non avevo mai visto una simile bellezza.

— Guarda — disse. — Leone sonnecchia. Ama il vino più di ogni altra cosa.

— Deve amare la bellezza — replicai io. — Ne ha raccolta tanta intorno a sé.

— Adulatore!

— No. Cerco di dire la verità.

— Non ci riesci spesso — commentò Pulcheria. — Chi sei?

— Markezinis dell’Epiro, cugino di Metaxas.

— Questo mi spiega ben poco. Voglio dire, cosa cerchi a Costantinopoli?

Feci un profondo respiro. — Adempiere il mio destino trovando colei che devo trovare, colei che amo.

Il colpo andò a segno. Le ragazze di diciassette anni sono sensibili a cose del genere: perfino a Bisanzio, dove le fanciulle maturano presto e si sposano a dodici anni. Chiamatemi Heathcliff.

Pulcheria si lasciò sfuggire un gemito, incrociò castamente le braccia sugli alti seni e rabbrividì. Credo che le pupille le si siano dilatate per un attimo.

— È impossibile — disse.

— Nulla è impossibile.

— Mio marito…

— Dorme — dissi io. — Questa notte… sotto questo tetto…

— No. Non possiamo.

— Pulcheria, tu cerchi di opporti al destino.

— Gheorghios!

— Un legame ci unisce… un legame che si estende attraverso il tempo…

— Sì, Gheorghios!

Adesso calma, bis-bis-multi-bisnipote: non parlare troppo. È un banale cronoreato, vantarsi di provenire dal futuro.

— Era la volontà del fato — sussurrai. — Doveva essere così!

— Sì! Sì!

— Stanotte.

— Stanotte, sì.

— Qui.

— Qui — disse Pulcheria.

— Presto.

— Quando gli ospiti se ne andranno. Quando Leone sarà a letto. Ti farò nascondere in una stanza, al sicuro… verrò io da te…

— Sapevi che sarebbe accaduto — dissi. — Lo sai dal giorno in cui ci siamo incontrati nella bottega di spezie.

— Sì. L’ho capito immediatamente. Che magia hai operato su di me?

— Nessuna, Pulcheria. La magia ci domina entrambi. Ci attira l’una verso l’altro, foggiando questo momento, filando l’ordito del nostro destino per creare il nostro incontro, sconvolgendo gli stessi confini del tempo…

— Parli in modo così strano, Gheorghios. In modo così splendido. Devi essere un poeta!

— Forse.

— Tra due ore sarai mio.

— E tu mia — dissi.

— E per sempre.

Rabbrividii pensando alla spada della Pattuglia temporale sospesa sulla mia testa.

— Per sempre, Pulcheria.

XLVII

Pulcheria parlò a un servitore: gli disse che il giovane visitatore dell’Epiro aveva bevuto troppo e desiderava sdraiarsi in una delle stanze degli ospiti. Mi mostrai adeguatamente alticcio e insonnolito. Metaxas mi trovò e mi augurò buona fortuna.

Poi, a lume di candela, pellegrinai nel labirinto del palazzo dei Dücas e venni accompagnato in una semplice stanzetta, sul retro dell’edificio. L’arredamento consisteva esclusivamente in un letto basso. Un mosaico rettangolare, al centro del pavimento, era l’unica decorazione. La stretta finestra lasciava passare un fascio di raggi di luna. Il servitore mi portò un bacile d’acqua, mi augurò buon riposo, e mi lasciò solo.

Io attesi un miliardo di anni.

Mi giungevano rumori di baldorie lontane. Pulcheria non arrivava.

È tutto uno scherzo, pensai. Un inganno. La giovane ma raffinata padrona di casa si diverte alle spalle del cugino di campagna. Mi lascerà aspettare impaziente e agitato fino al mattino, poi manderà un servo a portarmi la colazione e a farmi uscire.

O magari, tra un paio d’ore, dirà a una delle sue schiave di venire qui spacciandosi per Pulcheria. O magari mi manderà una vecchia sdentata, mentre gli ospiti osservano attraverso spioncini nascosti nella parete. Oppure…

Pensai mille volte di fuggire. Basta toccare il timer e sfrecciare su per la linea fino al 1204, dove Conrad Sauerabend e Palmyra Gostaman e i coniugi Haggins e gli altri miei turisti dormono indifesi.

Battermela? Adesso? Quando finora è andato tutto così bene? Cosa mi avrebbe detto Metaxas, quando avesse scoperto che avevo perso il coraggio?

Ricordai il mio guru, il nero Sam, che mi domandava: — Se avessi la possibilità di ottenere ciò che desideri di più, ne approfitteresti?

Pulcheria era ciò che più desideravo: adesso lo sapevo.

Ricordai il nero Sam che mi diceva: — Tu sei un perdente ossessivo. I perdenti scelgono infallibilmente l’alternativa meno desiderabile.

Vattene, bis-bis-multi-bisnipote. Vattene da qui prima che la splendida e primordiale antenata possa offrirti il suo grembo muschiato e scuro.

Ricordai Emily, la ragazza del centro genetico fornita del dono della profezia, che gridava con voce stridula: — Guardati dall’amore a Bisanzio! Guardatene!

Guardatene!

Io amavo. A Bisanzio.

Mi alzai, camminai avanti e indietro mille volte, mi accostai alla porta ascoltando le risate smorzate e i canti lontani, e poi mi svestii completamente ripiegando con cura ogni indumento e deponendolo sul pavimento accanto al letto. Rimasi nudo, a parte il timer, e mi chiesi se era meglio togliermi anche quello. Cos’avrebbe detto, Pulcheria, vedendomi con quella fascia di plastica marrone alla cintola? Come l’avrei spiegata?

Slacciai anche il timer, separandomene per la prima volta nella mia carriera su per la linea. M’invasero ondate di terrore autentico: mi sentivo più nudo ancora, senza: mi sentivo spogliato fino alle ossa. Senza il timer intorno ai fianchi ero schiavo del tempo, come tutti gli altri. Non avevo la possibilità di fuggire rapidamente. Se Pulcheria progettava uno scherzo crudele, e io fossi stato sorpreso senza il timer a portata di mano, sarei stato spacciato.

Mi affrettai a rimettere il timer.

Poi mi lavai meticolosamente, dappertutto, purificandomi per Pulcheria. E rimasi in piedi, nudo, accanto al letto, e attesi un altro miliardo di anni. E pensai con desiderio alle punte scure e turgide dei seni di Pulcheria, alla morbidezza della pelle tra le sue cosce. E la mia virilità prese vita, salendo a proporzioni così stravaganti da rendermi nel contempo fiero e imbarazzato.

Non volevo che Pulcheria entrasse e mi trovasse così, accanto al letto, con quell’albero di carne che mi spuntava tra le gambe. Sembravo un tripode inclinato: accoglierla in quel modo era troppo brutale, troppo diretto. Mi rivestii in fretta, sentendomi molto sciocco. E attesi un altro miliardo di anni. E vidi la luce dell’alba che cominciava a mescolarsi col chiaro di luna, oltre la finestrella.

E la porta si aprì, e Pulcheria entrò, e si sprangò la porta alle spalle.

Si era tolta tutto il pesante trucco e si era levata tutti i gioielli tranne un pettorale d’oro, e al posto dell’abito che portava al ricevimento aveva indossato una leggera vestaglia di seta. Nonostante la luce fioca vidi che sotto era nuda, e le dolci curve del suo corpo m’infiammarono quasi alla follia. Avanzò verso di me.

La presi tra le braccia e cercai di baciarla. Lei non capiva il bacio: la posizione che bisogna adottare per il contatto bocca a bocca le era ignota. Dovetti inclinarle delicatamente la testa. Lei sorrise, perplessa ma docile.