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Le nostre labbra si toccarono. La mia lingua scattò fremendo.

Pulcheria rabbrividì, si strinse contro di me. Imparò fulmineamente la teoria del bacio.

Le mie mani le scesero sulle spalle. Le tolsi la vestaglia: tremava un poco, mentre la denudavo.

Le contai i seni. Due. Capezzoli rosei. Le misurai le natiche con le mani aperte.

Una bella taglia. Le feci scorrere sulle cosce la punta delle dita. Splendide cosce.

Ammirai le due profonde fossette sulle reni.

Lei era contemporaneamente timida e lussuriosa, una combinazione supèrba.

Quando io mi svestii, Pulcheria vide il timer e lo toccò: ma non chiese spiegazioni, e le sue mani scivolarono più in basso. Piombammo insieme sul letto.

Vedete, il sesso è veramente una cosa ridicola. L’atto fisico, voglio dire. Quello che chiamano «far l’amore» nei romanzi del ventesimo secolo, quello che chiamano «dormire insieme». Voglio dire: pensate a tutto l’impegno letterario che è stato dedicato a scrivere rapsodie della scopata. E a cosa si riduce tutto quanto, in effetti?

Si prende questa rigida e corta asta carnosa e la si mette in questo solco lubrificato, strofinandola avanti e indietro finché si accumula una carica sufficiente per rendere possibile la scarica. E come accendere il fuoco facendo ruotare un bastoncino contro una tavola. In effetti, non è niente di straordinario: inserire il tenone A nella mortasa B, e far vibrare fino alla conclusione.

Considerate l’atto e capirete che è assurdo. Le natiche che sobbalzano in su e in giù, le gambe che si agitano, i gemiti soffocati, le accelerazioni e i rallentamenti… può esistere qualcosa di più sciocco, per un atto centrale che governa i sentimenti umani?

No, naturalmente. Eppure perché quella sudata transazione con Pulcheria fu tanto importante per me (e forse anche per lei)?

La mia teoria è che il vero significato del sesso, di un bell’atto sessuale, è simbolico. È qualcosa al di là del fatto che durante tutte quelle manovre si prova per un breve tempo un «solletico» di piacere. In fin dei conti il medesimo piacere si può provare anche senza prendersi la briga di procurarsi compagnia; eppure non è la stessa cosa, vero?

No, il sesso è qualcosa di più di una contrazione dell’inguine: è la celebrazione dell’unione spirituale, della fiducia reciproca. A letto ci diciamo a vicenda: ecco, io mi do a te con la speranza che mi darai piacere, e cercherò di dare piacere anche a te.

Il contratto sociale, chiamiamolo così. E il brivido sta nel contratto, non nel piacere che è il suo pagamento.

E ci si dice, anche: ecco il mio corpo nudo, con tutti i suoi difetti, che ti mostro fiduciosamente, sapendo che non ne riderai. E ci si dice: io accetto questo contatto intimo con te, sebbene sappia che puoi trasmettermi una malattia ripugnante; non esito a correre il rischio, perché tu sei tu. E la donna usava dire, almeno fino al diciannovesimo secolo o all’inizio del ventesimo: mi apro a te anche se tra nove mesi potranno esserci conseguenze biologiche.

Tutte queste cose sono molto più vitali del rapido sfogo. E per questo che i congegni meccanici per la masturbazione non hanno mai sostituito il sesso e non lo sostituiranno mai.

È per questo che quanto accadde tra me e Pulcheria Dücas, in quel mattino bizantino del 1105, fu una transazione molto più significativa di quanto era accaduto tra me e l’imperatrice Teodora mezzo millennio prima, e più significativo di quanto era accaduto tra me e un numero imprecisabile di donne un millennio dopo. In Teodora, in Pulcheria, e in tutte quelle donne giù per la linea, avevo riversato approssimativamente lo stesso numero di centimetri cubi di fluido salato: ma con Pulcheria era diverso. Con Pulcheria, il nostro orgasmo fu solo il sigillo simbolico di qualcosa di più grande. Per me Pulcheria era l’incarnazione della bellezza e della grazia, e la sua facile resa fece di me un imperatore più potente di Alessio, e né lo spruzzo del mio getto né il suo fremito di risposta contavano un decimo del fatto che io e lei ci eravamo uniti nella fiducia, nella fede, nel desiderio condiviso… nell’amore. Questo è il nucleo della mia filosofia. Ecco cosa sono: un romantico.

Questa è la profondità che ho estratto da tutte le mie esperienze: il sesso con l’amore è meglio del sesso senza amore. Come volevasi dimostrare. Posso anche dimostrarvi, se volete, che essere sani è meglio che essere malati, e che essere ricchi è meglio che essere poveri. Le mie capacità di pensiero astratto sono illimitate.

XLVIII

Tuttavia, sebbene avessimo dimostrato adeguatamente il principio filosofico, ricominciammo la dimostrazione mezz’ora dopo. La reiterazione è l’anima della comprensione.

Poi giacemmo a fianco a fianco, dolcemente raggianti. Era il momento di offrire alla mia compagna uno spinello e di condividere un tipo di comunione diverso, ma naturalmente lì era impossibile. Ne sentivo molto la mancanza.

— È molto diverso, nel posto da dove vieni? — mi domandò Pulcheria. — Voglio dire la gente, come si veste, come parla.

— Molto diverso.

— Sento in te una grande stranezza, Gheorghios. Anche il modo in cui ti sei comportato a letto. Non che io sia un’esperta di queste cose, capisci. Tu e Leone siete stati gli unici uomini, per me.

— Davvero?

Le sfolgorarono gli occhi. — Mi hai presa per una puttana?

— Be’, naturalmente no, ma… — M’impappinai. — Al mio paese — dissi, alla disperata, — una ragazza prende molti uomini, prima di sposarsi. Nessuno ci trova da ridire. È l’usanza.

— Qui no. Qui siamo ben sorvegliate. Io mi sono sposata a dodici anni: ho avuto poco tempo, per le libertà. — Aggrottò la fronte, si levò a sedere e si sporse su di me per guardarmi negli occhi. I suoi seni ondeggiarono stuzzicanti sopra la mia faccia.

— Le donne sono davvero così liberali, al tuo paese?

— Davvero, Pulcheria.

— Ma siete bizantini! Non siete barbari del nord! Come può essere lecito che una donna si prenda tanti uomini?

— È la nostra consuetudine — risposi, in modo poco convincente.

— Forse non vieni davvero dall’Epiro — osservò Pulcheria. — Forse provieni da un luogo più lontano. Te lo ripeto, Gheorghios: mi sembri molto strano.

— Non chiamarmi Gheorghios. Chiamami Jud — dissi arditamente.

— Jud?

— Jud.

— Perché dovrei chiamarti così?

— È il mio nome interiore. Il mio vero nome, quello che sento. Gheorghios è soltanto… ecco, un nome che uso.

— Jud. Jud. Non ho mai sentito questo nome. Tu vieni da una strana terra! È così!

Le rivolsi un sorriso sfingeo. — Ti amo — dissi, e per cambiare argomento le mordicchiai i capezzoli.

— Così strano — mormorò lei. — Così diverso. Eppure mi sono sentita attratta verso di te fin dal primo momento. Sai: da molto tempo sognavo di essere così perversa, ma non ho mai osato. Oh, ho ricevuto proposte, decine di proposte, ma mi sembrava che non ne valesse mai la pena. E poi ti ho visto, e ho sentito in me questo fuoco, questa… questa sete. Perché? Dimmi perché. Non sei né più né meno attraente di molti degli uomini ai quali avrei potuto darmi, eppure sei l’unico. Perché?

— Era destino — risposi. — Come ti ho già detto. Una forza irresistibile, che ci attirava attraverso…

… i secoli…

— … il mare — conclusi, incerto.

— Tornerai ancora da me? — domandò Pulcheria.

— Sempre e sempre e sempre.

— Troverò qualche modo per incontrarci. Leone non lo saprà mai. Passa tanto tempo alla banca (sai, è uno dei direttori), e negli altri suoi affari, e con l’imperatore: quasi non si accorge di me. Io sono uno dei suoi tanti graziosi gingilli.