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Svanì. Lo seguii, su per la linea. Dopo mezzo istante di confusione ci ritrovammo a fianco a fianco, sulla stessa strada, alla stessa ora di notte.

— Ventiquattr’ore prima del tuo arrivo a New Orleans. Adesso ci sono un Jud Elliott qui e uno a Nuovissima York, pronto a prendere la navetta per il sud. Che effetto ti fa?

— Spaventoso — dissi io. — Ma comincio ad adattarmi.

— Non è finita. Adesso andiamo a casa.

Mi portò nel suo appartamento. Non c’era nessuno, perché il Sam di quella nicchia temporale era a lavorare al fiutatolo. Andammo in bagno e Sam regolò di nuovo il mio timer, mettendolo avanti di trentun ore. — Smistati — mi disse, e andammo giù per la linea insieme, uscendo ancora nel bagno di Sam, la notte dopo. Udii un suono di risa ebbre proveniente dalla stanza accanto; udii le rauche grida ansimanti della concupiscenza. In fretta, Sam chiuse la porta del bagno e premette la serratura col palmo della mano. Compresi che io ero nella stanza accanto, a far l’amore con Betsy o Helen, e la paura ritornò.

— Aspetta qui — fece brusco Sam, — e non far entrare nessuno se non batte due colpi lunghi e uno corto. Forse tornerò subito.

Uscì. Io chiusi la porta alle sue spalle. Passarono due o tre minuti. Poi udii due colpi lunghi e uno breve, e aprii. Con un gran sogghigno, Sam disse: — Puoi sbirciare senza pericolo. Nessuno è in condizioni di notarci. Vieni.

— È necessario?

— Se vuoi entrare nel Servizio temporale, sì.

Sgusciammo dal bagno e andammo ad ammirare l’orgia. Faticavo a non tossire, mentre le esalazioni assalivano le mie narici impreparate. Nel soggiorno di Sam mi trovai di fronte a chilometri quadri di carni nude e frementi. Alla mia sinistra vedevo l’enorme corpo nero di Sam che martellava sulla bianca snellezza di Helen: tutto ciò che era visibile di lei, sotto Sam, erano il volto, le braccia (strette sull’ampia schiena di lui) e una gamba (allacciata intorno al didietro di lui). Alla mia destra vedevo il mio precedente me stesso sul pavimento, allacciato alla pettoruta Betsy. Eravamo in una posizione kamasutroide: lei sul fianco destro, io sul sinistro, lei con una gamba inarcata sopra di me, io con il corpo incurvato e imperniato a un angolo obliquo rispetto al suo. In preda a una specie di terrore gelido, vidi me stesso possederla.

Sebbene avessi visto una quantità di scene d’accoppiamento (nei film in tredì, sulle spiagge, qualche volta alle feste) era la prima volta che vedevo me stesso in quell’atto, e rimasi annientato dal lato grottesco dell’insieme, dagli ansimi idioti, dai lineamenti contratti, dagli aggobbimenti sudaticci. Betsy lanciava belati di passione; le nostre membra, dibattendosi, cambiarono posizione parecchie volte; le mie dita convulse affondavano nelle sue natiche carnose; le spinte meccaniche continuavano all’infinito. E il mio terrore diminuì via via che mi abituavo alla scena, e mi accorsi che un freddo distacco clinico ne prendeva il posto e che il sudore della paura si asciugava: alla fine me ne restai lì a braccia conserte, studiando freddamente le attività in corso sul pavimento. Sam sorrise e annuì, come per dirmi che avevo superato un esame. Regolò di nuovo il mio timer, e ci smistammo insieme.

Il soggiorno era privo di fornicatori e di esalazioni. — Adesso quando siamo? — domandai.

Sam rispose: — Siamo tornati indietro di trentun ore e trenta minuti. Fra un po’ tu e io entreremo in bagno, ma noi non resteremo qui ad aspettare. Andiamo su, in cima alla città.

Salimmo in superficie, a New Orleans vecchia, sotto il cielo stellato.

Il robot che sorveglia gli andirivieni degli eccentrici amanti delle passeggiate all’aperto prese nota del nostro transito, e noi uscimmo per le strade silenziose. Lì c’era la vera Bourbon Street; lì gli edifici fatiscenti dell’autentico quartiere francese.

Occhispie montati sulle ringhiere merlettate dei balconi ci osservavano, perché in quell’epoca abbandonata gli innocenti sono alla mercé dei depravati e ì turisti vengono protetti grazie a una sorveglianza continua dai malfattori che si aggirano per la città di superficie. Ma non restammo abbastanza a lungo da metterci in qualche guaio. Sam si guardò in giro, rifletté un po’, e si piazzò contro una casa. Mentre regolava il mio timer per un altro smistamento, Io domandai: — Cosa succede se ci materializziamo in uno spazio già occupato da qualcuno o da qualcosa?

— Non è possibile — disse Sam. — Intervengono i respingenti automatici, e noi verremmo ributtati istantaneamente al punto di partenza. Ma è uno spreco d’energia, e al Servizio temporale non piace; perciò, prima di balzare, noi cerchiamo sempre un’area sgombra. Di solito va bene mettersi contro un muro, purché si possa avere la certezza che quel muro si trova nella stessa posizione al tempo in cui si è diretti.

— E adesso dove andiamo?

— Smistati e vedrai — disse lui. E balzò. Lo seguii.

La città prese vita. Per le strade camminava gente in abiti del ventesimo secolo: uomini con la cravatta, donne con le sottane fino al ginocchio, niente carne vera e propria in mostra, neanche un capezzolo. Automobili che correvano facendo baccano ed emettendo esalazioni da darmi il voltastomaco. Clacson che suonavano.

Perforatrici pneumatiche che trapanavano l’asfalto. Rumore, tanfo, bruttezza.

Benvenuto nel 1961 — disse Sam. — John Kennedy ha appena prestato giuramento come presidente. Il primo Kennedy, capisci? Quel coso lassù è un aereo a reazione.

Quello è un semaforo: ti dice quando puoi attraversare la strada. Quelli là sono lampioni. Funzionano a elettricità. Non esistono sottolivelli. È tutta qui, l’intera città di New Orleans. Ti piace?

— È un posto interessante da visitare. Non vorrei viverci.

— Ti senti stordito? Nauseato? Disgustato?

— Un pochettino.

— È consentito. Si sente sempre un piccolo trauma temporale, alla prima occhiata al passato. Chissà perché, sembra sempre più puzzolente e caotico di quanto ci si aspetta. Certi candidati crollano nel momento in cui compiono un vero smistamento un po’ lontano, su per la linea.

— Io non sto crollando.

— Bravo.

Osservai la scena; le donne con, i seni e le natiche inguauiati in rigidi esoscheletri sotto i vestiti, gli uomini con la faccia florida e strangolata, i marmocchi che strillavano. Sii obbiettivo, mi dissi. Sei uno studioso di altri tempi, di altre culture.

Qualcuno ci additò e strillò: — Ehi! Guardate i beatnik!

— Avanti — disse Sam. — Ci hanno notati. Regolò il mio timer. Balzammo.

Stessa città. Un secolo prima. Stessi edifici, delicati ed eterni nei colori pastello.

Niente semafori né martelli pneumatici né lampioni. Invece delle automobili che sfrecciavano lungo le strade del vecchio quartiere, c’erano dei calessini.

— Non possiamo restare — disse Sam. — È il 1858. I nostri vestiti sono troppo strani, e non me la sento di passare per uno schiavo. Avanti.

Ci smistammo.

La città sparì. Eravamo in una specie di palude. A sud si levavano nebbie sottili.

Gli eleganti alberi erano ricoperti di muschio. Uno stormo d’uccelli in volo oscurava il cielo.

— E l’anno 1382 — disse il guru. — Quelli lassù sono piccioni viaggiatori. Il nonno di Colombo è ancora vergine.

Balzammo indietro, sempre più indietro. 897. 441. 97. La scena cambiò pochissimo. A un certo punto passarono due indiani nudi. Sam s’inchinò cerimoniosamente. Quelli ci rivolsero un affabile cenno del capo, si grattarono i genitali, e proseguirono. I visitatori venuti dal futuro non li impressionavano molto.

Ci smistammo. — Questo è l’anno 1 — disse Sam. Ci smistammo. — Siamo tornati indietro di altri dodici mesi e adesso siamo nell’1 avanti Cristo. C’è grande possibilità di confondersi, per via della matematica. Ma se pensi che questo è l’anno 2059 A.P. e il prossimo è il 2058 A.P., non avrai fastidi.