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— Non me l’hanno mai detto…

— Non vogliono che si risappia. Ma capita. Cinque-sei volte l’anno succede che qualcuno si faccia un viaggio privato nel tempo, alle spalle del suo Corriere.

Io domandai: — E al Corriere cosa capita?

— Se la Pattuglia temporale se ne accorge? Viene licenziato — rispose mestamente Buonocore. Noi cerchiamo di coprirci a vicenda, prima che entri in scena la Pattuglia. Ë un lavoraccio, ma è necessario. Voglio dire: se non aiuti un collega quando è nei pasticci, chi diavolo aiuterà te?

— Inoltre — disse Sam, — ci fa sentire tutti eroi.

Esaminai il grafico. Avevano cercato scrupolosamente Sauerabend nel periodo iniziale di Bisanzio, da Costantino fino a Teodosio II, e avevano verificato con pari cura gli ultimi due secoli. Nella fascia mediana, fino a quel momento, avevano investigato a casaccio. Sam, Buonocore e Monroe erano appena tornati a riposarsi; Kolettis, Plastiras e Pappas si preparavano a partire, e stavano facendo i piani strategici.

Continuarono tutti a essere molto cari con me, durante la disamina dei metodi per catturare Sauerabend. Provavo per loro un sincero senso di calore umano. I miei camerati nelle avversità. I miei compagni. I miei colleghi. I Moschettieri del Tempo.

Mi si allargò il cuore. Tenni loro un discorsetto per spiegare quanto ero grato del loro aiuto. Con aria imbarazzata replicarono che era solo questione di cameratismo, il principio informatore messo in pratica.

La porta si aprì ed entrò un personaggio tutto impolverato, con un paio di anacronistici occhiali da sole. Najeeb Dajani, il mio vecchio istruttore! Fece una smorfia, si lasciò cadere su un seggio e fece un cenno impaziente per chiedere vino.

Kolettis glielo porse. Dajani se ne versò un poco nel cavo della mano e se ne servì per lavare la polvere dagli occhiali. Poi bevve il resto.

— Signor Dajani! — esclamai. — Non sapevo che avessero chiamato anche lei!

Senta, voglio ringraziarla per l’aiuto…

— Stupido di un pirla — disse calmo Dajani, — come ho fatto a darti la patente di Corriere?

LII

Dajani era appena ritornato da un’ispezione in città nel 630-65C, ma non aveva avuto fortuna. Era stanco e irritato, e manifestamente non era entusiasta dell’idea di trascorrere la licenza cercando il turista fuggitivo di qualcun altro.

Si affrettò a smorzare il mio umore sentimentale. Cercai di recitargli il mio discorsetto di gratitudine; ma lui fece, acido: — Smettila di sviolinare. Lo faccio perché si rifletterebbe negativamente sulla mia capacità di istruttore, se la Pattuglia scoprisse che razza di antropoide ho trasformato in Corriere. È la mia pelle, che cerco di proteggere.

Vi fu uno sgradevole momento di silenzio. Parecchi strascicarono i piedi e si schiarirono la gola.

— Non è molto consolante, sentirselo dire — dichiarai a Dajani.

Buonocore intervenne: — Non prendertela così, ragazzo. Come ti ho detto, a qualunque Corriere può capitare un turista che manomette il timer, e…

— Non mi riferisco alla perdita del turista — disse stizzito Dajani. — Mi riferisco al fatto che questo idiota è riuscito a duplicare se stesso mentre cercava di correggere l’errore! — Tracannò una gorgogliante sorsata di vino. — Quella gliela posso perdonare, ma questa no.

— La duplicazione è una brutta faccenda — ammise Buonocore.

— Una faccenda seria — aggiunse Kolettis.

— Cattivo karma — ribadì Sam. — Non so come la copriremo, questa.

— Non riesco a ricordare un solo precedente — dichiarò Pappas.

— Un grave errore di calcolo — commentò Plastiras.

— Sentite — dissi io, — la duplicazione è stata accidentale. Ero così smanioso di trovare Sauerabend che non mi sono soffermato a calcolare le implicazioni di…

— Comprendiamo — fece Sam.

— È un errore naturale, quando si è sotto pressione — osservò Jeff Monroe.

— Poteva accadere a chiunque — concesse Buonocore.

— Un peccato. Un vero peccato — mormorò Pappas. Cominciai a sentirmi non più un membro importante di una solidale confraternita quanto un nipote un po’ scemo che non riesce a evitare di lasciare tracce di sporcizia dovunque vada: gli zii dello scemo si adoperano per ripulire una macchia, e cercano di tenerlo calmo perché non faccia di peggio.

Poi compresi qual era, in realtà, l’atteggiamento di quegli uomini nei miei confronti. Provai l’impulso di chiamare la Pattuglia temporale, confessare i miei cronoreati, e chiedere di venire sradicato. La mia anima si rattrappì. La mia virilità si avvizzì. Io, lo scopatore di imperatrici, il seduttore di nobildonne recluse, l’interlocutore di imperatori, io, l’ultimo dei Dücas, io, il navigatore dei millenni, io, il brillante Corriere nello stile di Metaxas, Io… Io, per quei Corrieri veterani, ero semplicemente una massa eretta di sterco ambulante. Una fece che camminava come un uomo. Cioè, il singolare di feci. Vale a dire, uno stronzo.

LIII

Metaxas, che non parlava da un quarto d’ora, disse infine: — Se quelli che devono partire sono pronti, chiamerò un cocchio per condurli in città.

Kolettis scosse il capo. — Non abbiamo ancora diviso le epoche. Ma ci metteremo un minuto.

Si consultarono laboriosamente, davanti al grafico. Decisero che Kolettis avrebbe esplorato il 700-725, Plastiras il 1150-1175, e io avrei ispezionato il 725-745. Pappas aveva portato con sé una tuta antipeste e intendeva controllare gli anni dell’epidemia, 745-747, nel caso che Sauerabend fosse finito proprio in quel periodo proscritto.

Considerando quello che chiaramente pensavano di me, mi stupiva che si fidassero a lasciarmi compiere un balzo nel tempo tutto da solo. Ma forse ritenevano che non potessi mettermi in guai peggiori. Andammo in città con uno dei cocchi di Metaxas.

Ognuno di noi aveva un ritratto di Sauerabend, piccolo ma molto somigliante, dipinto (su una lamina di legno verniciato) da un artista bizantino contemporaneo assoldato da Metaxas. L’artista aveva eseguito il lavoro basandosi su un’olografia: chissà cosa ne aveva pensato.

Quando arrivammo a Costantinopoli, ci dividemmo e uno alla volta ci smistammo nelle epoche che dovevamo esplorare, io mi materializzai su per la linea nel 725, e mi resi conto dello scherzetto che mi era capitato.

Era l’inizio dell’epoca dell’iconoclastia, quando l’imperatore Leone III aveva condannato il culto delle immagini dipinte. A quel tempo, quasi tutti i bizantini erano ferventi iconodúli — adoratori d’immagini — e Leone si era messo di buzzo buono a stroncare il culto delle icone: dapprima parlando e predicando, poi distruggendo un’immagine di Cristo nella Cappella della Chalke (o Casa Bronzea) di fronte al Grande Palazzo. Poi le cose erano peggiorate: le immagini e i fabbricanti di immagini erano stati perseguitati, e il figlio di Leone aveva emanato un proclama che dichiarava: — Verrà rifiutata, asportata e abiurata dalla Chiesa cristiana ogni immagine realizzata con qualunque materiale dall’arte malvagia dei pittori.

E proprio in quell’epoca io dovevo andarmene in giro con un piccolo ritratto di Conrad Sauerabend chiedendo alla gente: — Avete visto da qualche parte quest’uomo?

Il mio dipinto non era esattamente un’icona. Era improbabile che chi lo guardava scambiasse Sauerabend per un santo. Comunque mi creò parecchie difficoltà.

— Avete visto da qualche parte quest’uomo? — domandavo, e mostravo il ritratto.

Al mercato.

Nei bagni pubblici.

Sui gradini di Haghia Sophia.

Davanti al Grande Palazzo.

— Avete visto da qualche parte quest’uomo?