All’ippodromo, durante una partita di polo.
All’annuale distribuzione gratuita di pane e pesce ai poveri, l’11 maggio, per festeggiare l’anniversario della fondazione della città.
Davanti alla chiesa dei santi Sergio e Bacco.
— Sto cercando l’uomo di cui ho qui il ritratto.
Metà delle volte non riuscivo neppure a estrarre il dipinto. Quelli vedevano un uomo che tirava fuori dalla tunica un’icona, e scappavano gridando: — Cane iconodúlo! Adoratore d’immagini!
— Ma questo non è… Sto solo cercando… Non devi scambiare questo dipinto per…
Torna qui!
Fui preso a spintoni e a sputi. Venni maltrattato dalle guardie imperiali, e guardato male dai sacerdoti iconoclasti. Molte volte venni invitato a partecipare a cerimonie clandestine da iconodúli segreti.
Non ottenni informazioni sul conto di Conrad Sauerabend.
Comunque, nonostante tutte le difficoltà, c’era sempre qualcuno che guardava il ritratto. Nessuno aveva visto Sauerabend, sebbene alcuni «credessero» di aver notato qualcuno che somigliava all’uomo del dipinto. Sprecai due giorni per rintracciare uno dei presunti somiglianti, e scoprii che non gli somigliava affatto.
Continuai, balzando da un anno all’altro. Mi aggirai intorno ai gruppi di turisti, pensando che Sauerabend preferisse tenersi vicino a gente della sua epoca.
Niente. Nessuna traccia.
Finalmente, scoraggiato e con i piedi doloranti, ritornai al 1105. Alla villa di Metaxas trovai soltanto Pappas, che sembrava ancora più stanco e malconcio di me.
— È inutile — dissi. — Non lo troveremo. È come cercare… come cercare…
— Un ago in un cronopagliaio — suggerì Pappas.
LIV
Mi ero meritato un po’ di riposo prima di tornare a quella lunga notte del 1204 e di mandare lì il mio alter ego a continuare le ricerche. Feci il bagno, dormii, scopai due o tre volte una schiava odorosa di aglio, e rimuginai. Ritornò Kolettis: non aveva avuto fortuna. Ritornò Plastiras: niente. Andarono giù per la linea, per riprendere il loro lavoro di Corrieri. Compers, Herschel e Melamed, sacrificando parte della licenza in corso, comparvero e cominciarono immediatamente a cercare Sauerabend.
Più erano numerosi i Corrieri che si offrivano volontari per aiutarmi nel momento del bisogno, e peggio mi sentivo.
Decisi di consolarmi tra le braccia di Pulcheria.
Voglio dire: siccome ero nell’epoca giusta, e siccome Jud B aveva trascurato di andarla a trovare, mi pareva giusto. C’eravamo pur dati una specie di appuntamento, no? Una delle ultime cose che mi aveva detto Pulcheria, dopo quella notte delle notti, era stata: — C’incontreremo ancora fra due giorni, sì? Penserò io a tutto.
Quanto tempo era passato?
Almeno due settimane sulla base in tempo attuale del 1105, calcolai. Forse tre.
Pulcheria doveva mandarmi un messaggio alla villa di Metaxas, dicendomi dove e come potevamo incontrarci per la seconda volta. A causa di Sauerabend, l’avevo dimenticato. Cominciai ad aggirarmi per la villa, chiedendo ai domestici e al maggiordomo di Metaxas se era arrivato dalla città qualche messaggio per me.
— No — dissero quelli. — Nessun messaggio.
— Pensateci bene. Aspetto un messaggio importante dal palazzo dei Dücas. Da Pulcheria Dücas.
— Da chi?
— Pulcheria Dücas.
— Nessun messaggio, signore.
Indossai i miei abiti migliori e andai a Costantinopoli. Avrei osato presentarmi non invitato a palazzo Dücas? Osai. La mia identità fasulla di provinciale avrebbe giustificato l’eventuale violazione delle norme dell’etichetta.
Al portone di palazzo Dücas suonai per chiamare i servitori. Uscì un vecchio paggio, lo stesso che quella famosa notte mi aveva accompagnato nella stanza in cui Pulcheria mi si era data. Gli sorrisi amichevolmente: il paggio ricambiò impassibile lo sguardo. Mi aveva dimenticato, pensai.
Dissi: — I miei omaggi al nobile Leone e alla nobile Pulcheria. Vorresti avere la cortesia di avvertirli che Gheorghios Markezinis dell’Epiro è venuto a far loro visita?
— Al nobile Leone e alla nobile… — ripeté il paggio.
— Pulcheria — dissi io. — Mi conoscono. Sono cugino di Themistoklis Metaxas e… — Esitai: mi sentivo ancor più stupido del solito, a fornire il mio pedigree a un paggio. — Chiamami il maggiordomo — ordinai seccamente.
Il paggio rientrò in fretta.
Dopo un lungo indugio un individuo dall’aria imperiosa, nell’equivalente bizantino di una livrea, venne a scrutarmi.
— Sì?
— I miei omaggi al nobile Leone e alla nobile Pulcheria. Abbi la cortesia di dir loro…
— La nobile chi?
— La nobile Pulcheria, moglie di Leone Dücas. Sono Gherghios Markezinis dell’Epiro, cugino di Themistoklis Metaxas, e qualche settimana fa ho partecipato alla festa offerta da…
— La moglie di Leone Dücas — fece gelido il maggiordomo, — si chiama Euprepia.
— Euprepia?
— Euprepia Dücas, la padrona di casa. Cosa cerchi, uomo? Se vieni ubriaco a metà della giornata a disturbare il nobile Leone, io…
— Aspetta — dissi. — Euprepia! Non Pulcheria? — Un bisante d’oro balenò nella mia mano e svolazzò rapidamente sul palmo aperto del maggiordomo. — Non sono ubriaco, e si tratta di una cosa molto importante. Quand’ è stato che Leone ha sposato questa… questa Euprepia?
— Quattro anni fa.
— Quattro… anni… fa. No, è impossibile. Cinque anni fa ha sposato Pulcheria, che…
— Certamente ti sbagli. Il nobile Leone si è sposato una volta sola, con Euprepia Macrembolitissa, la madre di suo figlio Basilio e di sua figlia Zoe.
La mano si protese. Vi lasciai cadere un altro bisante d’oro.
Mormorai, stordito: — Il suo figlio maggiore è Niceta, che non è ancora nato, e non dovrebbe avere nessun figlio di nome Basilio, e… Mio Dio, mi stai prendendo in giro?
— Giuro davanti a Cristo Pantocratore di aver detto solo la verità — dichiarò con voce sonante il maggiordomo.
Battei le dita sulla borsa dei bisanti e dissi, ormai disperato: — Potrei ottenere un’udienza dalla nobile Euprepia?
— Forse sì. Ma non è qui. Da tre mesi, ormai, riposa nel palazzo dei Dücas sulla costa di Trebisonda, dove attende un altro figlio.
— Tre mesi. Dunque non c’è stata una festa, qui, qualche settimana fa?
— No, signore.
— Non c’era qui l’imperatore Alessio? Né Themistoklis Metaxas? Né Gheorghios Markezinis dell’Epiro? Né…
— Nessuno, signore. Posso esserti utile in qualche altra cosa?
— Non credo — dissi io, e mi allontanai dalla porta di palazzo Dücas come se fossi stato colpito dalla collera degli dei.
LV
Vagai stordito verso sudest, lungo il Corno d’Oro, fino a quando arrivai al labirinto di botteghe e mercati e taverne presso il luogo in cui un giorno sarebbe sorto il ponte di Calata e dove ancor oggi c’è un labirinto di botteghe e mercati e taverne. Avanzai come uno zombi, senza meta, per quelle stradette aggrovigliate e caotiche. Non vedevo nulla, e non pensavo: mi limitavo a mettere un piede davanti all’altro; e continuai a camminare fino a quando, all’inizio del pomeriggio, il fato mi afferrò ancora una volta per i fondelli.
Entrai casualmente in una taverna, un edificio a due piani di legno non dipinto.
Alcuni mercanti ingollavano il vino di metà giornata. Mi lasciai cadere pesantemente davanti a un tavolo traballante, in un angolo libero, e fissai la parete pensando a Euprepia, la moglie (incinta) di Leone Dücas.
Comparve una bella sguattera e suggerì: — Un po’ di vino?