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Lo shock mi provocò una visione opprimente che avrei potuto definire come un sogno ad occhi aperti, se non fossi stato convinto dalla sua vividezza che era reale.

Di nuovo avevo cinque anni e guardavo in su verso mio padre. Lo vidi chiaramente come l’uomo che era stato un tempo, più giovane, con la barba scura; vidi, nella luce tremolante della candela, l’amore e la tristezza nei suoi occhi mentre teneva il mio piccolo e magro braccio con la sua grande mano. Mi resi conto che non si trovava più nella foresta illuminata dalla luce del giorno e ingioiellata dalla pioggia, con il cane lupo ringhiante alle sue spalle, ma in un luogo ampio, oscuro, velato da ombre ondeggianti. L’argento gli brillava ai lati del viso. Io lo fissavo, indifeso, come Isacco quando Abramo alzò il coltello.

Un’improvvisa morsa mi chiuse le tempie con una forza talmente implacabile che mi afferrai la testa, poi l’immagine svanì immediatamente, sostituita da un pensiero inarrestabile: “Di sicuro questa è la pazzia”.

Caddi con le mani e le ginocchia sul freddo pavimento di marmo e vuotai lo stomaco. Credo di essere svenuto, poiché per un po’ di tempo rimasi del tutto privo di coscienza. Quando, finalmente, riuscii ad alzarmi sulle gambe tremanti e incerte, notai sul pavimento accanto a me gli strumenti della profanazione: un pesante martello di ferro, una sega di acciaio arrugginito e, sparse qua e là, alcune teste d’aglio. Evidentemente il profanatore li aveva lasciati cadere per la paura, ed era fuggito prima di finire il suo lavoro.

Un nuovo tipo di follia mi afferrò: un’infelice combinazione di furia e isteria. Se avessi affrontato in quel momento chi aveva commesso quell’azione, lo avrei facilmente ucciso con nessun’altra arma se non le mie mani. Sapevo che non potevo ritornare a casa… Dèi, no! Non ho parlato a Mary di questo, né lo devo fare, poiché uno shock tanto spaventoso farebbe del male a lei e al bambino. Invece risalii, correndo come un pazzo, la salita verso sud, e arrivai poco dopo, affannato, alla massiccia porta di legno del castello, sotto un grande arco di pietra. Ero convinto che soltanto Vlad avrebbe potuto aiutarmi; che soltanto lui avrebbe capito.

Mi gettai contro la porta e bussai con forza, ignorando le borchie di metallo che mi tagliavano i pugni. Dato che non ci fu una risposta immediata, cominciai a gridare il nome dello zio.

Dopo un tempo che mi parve un’eternità, la porta si aprì lentamente per lo spazio di un piede, e rimase così. Nelle ombre dell’oscuro androne si presentò una domestica grassoccia, con i capelli bianchi, vestita con il tradizionale abito da contadina: il lungo grembiule bianco doppio, con il davanti e il dietro, copriva un vestito a colori vivaci, e sul davanti del grembiule era poggiato un grosso crocifisso d’oro. Mi guardò con malcelata confusione e sconcerto.

«Vlad!», gridai. «Devo vedere Vlad immediatamente!».

Mise la testa fuori per rispondere, e potei vedere nella luce del sole che calava che i suoi capelli non erano bianchi, ma biondi striati di argento alle tempie, e che non era così anziana come avevo, sulle prime, pensato, ma soffriva dello stesso particolare invecchiamento che affliggeva mio padre e mia sorella. Il suo viso mi sembrava vagamente familiare ma, tra il mio dolore passato e la mia attuale agitazione, mi ero completamente dimenticato finora, mentre scrivo queste parole, che aveva preso parte alla sepoltura di mio padre e che avevo visto la sua faccia in mezzo a quella di altri domestici, di tanto in tanto, durante la mia fanciullezza.

«Il voievod non vede nessuno», mi disse.

«Vedrà me!», risposi in tono indignato. «Mio padre…», proruppi, sul punto di scoppiare a piangere, incapace persino di parlare di ciò che era accaduto.

Lei si chinò in avanti per osservarmi con fare da miope e tirò un breve sospiro quando alzò la mano alle labbra.

«Ma voi siete il figlio di Petru! Buon signore, perdonatemi. La mia vista è cattiva, altrimenti vi avrei riconosciuto immediatamente. Gli somigliate così tanto! Per favore, entrate…».

E mi fece cenno di entrare.

«Devo vedere immediatamente mio zio!», riuscii a dire con voce tremante, e lei rispose:

«Ahimè, caro signore, non è possibile. Non è ancora alzato».

«Allora sveglialo», dissi, e i suoi pallidi occhi grigi si spalancarono.

«Nemmeno questo è possibile, signore», ribatté, in un tono che esprimeva lo stupore per la mia ignoranza. «Nessuno può disturbare il suo sonno in questo momento, e nessuno, tranne Laszlo, ha il permesso di vederlo o di parlargli. Ma tra breve si alzerà, e so che vi riceverà. Permettetemi di condurvi nel suo studio, dove potrete attendere in tutta comodità».

Ero in un tale stato di agitazione, che non protestai, ma lasciai che mi conducesse, con la sua mano gentile che rapidamente sospingeva il mio gomito, attraverso stretti corridoi e su per una scala a chiocciola di pietra. Nonostante tutti gli anni in cui avevo giocato all’ombra del castello, ero stato raramente al suo interno, e la novità aumentò la mia agitazione, lasciandomi completamente sopraffatto.

Quando arrivammo all’interno dello studio che, sebbene privo di finestre, era confortevole e allegramente riscaldato da un fuoco vivace, ero talmente turbato che non udii il suo invito, e la povera donna dovette, letteralmente, mettermi a sedere in una sedia vuota accanto al fuoco.

«Arkady Tsepesh», disse, chinandosi su di me, ed io sobbalzai al suono di una strana voce che ripeteva il mio nome. Al mio sguardo sorpreso, sorrise debolmente e spiegò: «Conoscevo vostro padre, signore. Era molto gentile con me e parlava spesso di voi». La sua espressione si rabbuiò. «Mi addolora vedervi così sconvolto a causa sua. Non posso rimanere qui a lungo — il padrone verrà presto — ma lasciate che vi porti qualcosa che vi calmi. Del thè o, forse, qualcosa di più forte?».

«Del brandy».

«Abbiamo solo slivovitz, signore».

«Allora, portami uno slivovitz», dissi ma, non appena si raddrizzò e si mosse per andarsene, allungai la mano e le toccai la spalla; lei si voltò. «Tu conoscevi bene mio padre?», le chiesi.

Rispose con un unico triste e solenne cenno del capo. La mescolanza di dolore e affetto genuino nei suoi occhi grigi riuscì ad oltrepassare lo strato di shock per toccare il mio cuore, e le chiesi:

«Come ti chiami?»

«Masika, signore».

«Parli con un accento russo, Masika, ma il tuo nome è ungherese».

«Mio padre era russo, signore».

«E il suo nome…?», chiesi ancora, insistendo per sapere il suo patronimico. Per quanto fossi afflitto, desideravo essere educato con lei, poiché era stata così gentile con me.

Le sue gote rotonde si colorirono di un colore rosato.

«Ah, signore, soltanto Masika. Non so darmi delle arie con voi. Sono solo una vecchia serva».

«Tu eri amica di mio padre. Per favore… Lo vorrei sapere».

Le sue gote si scurirono di un rosso più intenso, ma lei rispose obbediente:

«Ivan, signore».

«Ah, Masika Ivanovna, non puoi immaginare l’orrore che ho appena visto!».

Al ricordo, mi portai una mano sul viso e lottai contro le lacrime. Lei si inginocchiò accanto a me e mi prese la mano, come potrebbe fare una madre, mentre io ripetevo con voce soffocata, senza dettagli, il fatto della profanazione della tomba di mio padre.