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La sua espressione si indurì e divenne indecifrabile mentre le si inumidivano gli occhi. Per un po’, mi diede dei colpetti affettuosi sulla mano in silenzio; infine, parlò con appassionata convinzione.

«So che un tale spettacolo deve aver lacerato il vostro cuore, così come il mio, ma non dovete mai dimenticare questo, signore: vostro padre dorme, ora, tra i morti benedetti, e nessuno, nulla, può disturbare il suo sonno. Lui è con Dio».

Avrei voluto obiettare all’ultima affermazione, ma la frase precedente mi aveva dato un po’ di conforto, così come la sua sincera e materna preoccupazione. Lei aprì le labbra come per parlare, poi esitò, come se ci fosse qualcos’altro che desiderava dire ma che non riusciva a convincersi a farlo.

«Che cosa c’è?», chiesi, sommessamente.

Lei mi guardò con un sussulto e nei suoi occhi vidi il dispiacere, mescolato a un’indubbia paura.

«Niente», rispose, abbassando le palpebre per nascondere la paura, «niente. Ora signore, lasciatemi andare subito a prendervi lo slivovitz, prima che venga il Principe».

Si alzò quindi faticosamente con un lamento, e poi si precipitò fuori.

Mi asciugai gli occhi con un fazzoletto e lottai per ricomporrai e organizzare i miei pensieri mentre fissavo il fuoco. Non so esattamente perché ero corso dallo zio per chiedere il suo aiuto. Sebbene tecnicamente noi Tsepesh abbiamo ancora dei privilegi reali e possediamo dei diritti legali sui contadini, il confine di questi diritti non è più chiaro nei tempi moderni. Mentre il Domnul Bibescu di Valacchia potrebbe riconoscere l’autorità di Vlad come Principe, la Transilvania è, ora, sotto il governo dell’Austria, e il compito di processare i criminali è lasciato di solito alle autorità di Bistritz. Però, non ci sono mai stati crimini di cui parlare nella nostra proprietà, e noi non siamo mai stati attaccati in modo così personale.

Per amore di mio padre, non potevo lasciare quell’atto impunito, nemmeno se avessi dovuto rintracciare da solo il criminale. Mi sembrava che il cadavere di mio padre fosse divenuto il simbolo di come i contadini avessero ingiuriato il nome della nostra famiglia negli ultimi quattro secoli, e giurai con ardore che avrei messo fine per sempre ai loro insulti, e che li avrei obbligati a rispettare il nome dei Tsepesh.

Masika Ivanovna ritornò presto con lo slivovitz, che aveva versato in una fine coppa di cristallo lavorato. Me la porse con una piccola riverenza e, dopo aver rapidamente mormorato, «Dio vi dia conforto, signore»; si voltò per andarsene.

Le toccai la mano.

«Per favore, resta un momento», la pregai.

La sua sola presenza mi confortava, e volevo porle delle domande sugli ultimi giorni di papà in casa e sulle parole che non aveva detto.

Si irrigidì, presa dal panico, con gli occhi che si dirigevano involontariamente verso la porta opposta e quella da cui eravamo entrati. Gentilmente, ma con fermezza, si liberò dalla mia presa.

«Oh, signore! Non posso. Il sole è quasi tramontato, ed io devo affrettarmi ad andare a casa!», mormorò.

Lasciai cadere la sua mano. Se non avessi visto il suo sguardo ansioso diretto verso la porta, avrei sospettato che dovesse andare a casa attraversando la foresta e che del tutto razionalmente temesse i lupi ma, al rumore di passi che si avvicinavano alla porta, si fece il segno della croce, sollevò la gonna, e corse attraverso la porta aperta che conduceva al corridoio. La chiuse quindi dietro di sé sbattendola con poche cerimonie.

Il forte rumore rinfocolò la mia angoscia e il mio furore. Poiché lo zio era dedito a strane abitudini e, a causa di un equivoco sul nome di famiglia, i contadini lo temevano come un mostro e avevano intessuto molte storie su di lui, materializzando le loro ridicole superstizioni. Quelle stesse superstizioni li avevano spinti a commettere quell’orrendo delitto contro il mio povero padre morto e, per un istante, la mia naturale simpatia per Masika Ivanovna fu sostituita dall’odio. A dispetto della sua gentilezza, temeva lo zio, e probabilmente credeva che ciò che era accaduto nella tomba di famiglia fosse necessario affinché l’anima di Petru riposasse in pace.

La porta si aprì con un cigolio e lo zio avanzò, diritto e alto, con tranquilla grazia, ma con un’aria di debolezza e lo stesso inquietante pallore delle due sere precedenti. Al vedere la mia espressione agitata, le sue sopracciglia cespugliose si sollevarono per lo stupore (oltre quegli occhi che tanto somigliavano a quelli di mio padre, parlò con la voce melodiosa di papà, rendendo il resoconto della notizia che dovevo dargli ancora più difficile).

«Arkady! Caro nipote! Non mi aspettavo di vederti tanto presto. Ma che succede? Sei triste…».

Rapidamente, sollevai la coppa alle labbra e ingoiai un grosso sorso di slivovitz, che mi punse le narici, la lingua e la gola come fosse fuoco, ma che non era del tutto sgradevole. Reprimendo la voglia di tossire, dissi (con una praticità che mi sorprese):

«La tomba di papà è stata violata. Hanno mutilato il cadavere con…».

Alzò una mano, incapace di udire altro e si voltò verso il fuoco, poi si chinò e si premette il petto dov’era il cuore. Io mi raddrizzai nella sedia e mi mossi per posare la coppa e alzarmi, pensando, dapprima, che avesse avuto una sorta di attacco e sentendo una fitta di colpa per aver dato la notizia a quel fragile vecchio in maniera così brusca. Ma era soltanto dolore. Rimase immobile e non emise alcun suono per almeno due interi minuti. Ricaddi indietro sulla sedia e bevvi un altro grosso sorso di slivovitz.

Alla fine parlò, con una voce talmente bassa che era quasi un bisbiglio, una voce che non riconoscevo più tanto era fredda e dura, come il marmo di una tomba.

«Che siano dannati!», disse lentamente, fissando sempre il fuoco. «Che siano dannati…». Poi si voltò verso di me, con tale improvvisa veemenza che mi tirai indietro, versando una piccola quantità di liquore sul mio gilet. I suoi lineamenti da falco erano contorti e i suoi occhi — non più quelli di papà ma quelli di Shepherd, che si chinavano sopra Stefan — bruciavano di una rabbia così maniacale e pericolosa che mi spaventai. «Farò in modo che la paghino! Come osano pensare che io…!». Allora sembrò notare il mio sconforto, poiché la sua espressione si rilassò un po’, trasformandosi in semplice amarezza; si voltò di nuovo verso il fuoco e disse: «Amavo tuo padre. Non sopporto che gli venga fatto del male, nemmeno ora».

«Lo so», risposi. «Mi dispiace di portare tali notizie, poiché so che ti causano dolore, ma pensavo che forse avresti potuto essere in grado di aiutarmi a scoprire chi…».

Ancora una volta, si voltò verso di me e alzò la mano.

«Non dire altro! Farò in modo che chi ha commesso questa orrenda azione sia portato davanti alla giustizia. Non devi preoccupartene un minuto di più».

«Non posso fare a meno di farlo», dissi, «poiché non riesco a capire come qualcuno possa aver commesso un atto tanto orribile. Supera semplicemente la mia capacità di comprensione».

Alzai quindi la coppa di cristallo alle labbra e la vuotai.

Le labbra di Vlad si contrassero, come per disgusto represso o per divertimento. Si mosse verso una sedia dallo schienale alto vecchia di secoli, imbottita di broccato dorato, e sedette con regalità, afferrando i braccioli imbottiti con mani forti, e assumendo veramente l’aria di un principe che sale sul trono.

«Che cosa c’è da capire? L’ignoranza dei contadini li porta alla follia».

«Credo di essere scioccato. Ho sempre creduto nella bontà di fondo delle persone».

Le sue labbra si assottigliarono; il suo tono conteneva una sottile ironia che trovai inquietante.

«Allora devi imparare molto sull’umanità, Arkady… e su te stesso». Ciò mi offese leggermente e l’offesa aumentò quando lui continuò: «Rivolgersi ai domestici con il loro patronimico! Questo non sta bene! Sangue reale scorre nelle tue vene; tu sei uno Tsepesh, il pronipote di un Principe!».