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9 aprile. Sto cominciando a pensare che tutti al castello siano un po’ pazzi.

Ieri mi sono recato là di buon’ora, per familiarizzarmi con gli affari dello zio. Ovviamente non ho parlato né a Zsuzsanna né a Mary della mostruosità di cui sono stato testimone nella tomba di famiglia: non avrebbero sopportato lo shock. Né mi sentivo io stesso di sopportarlo ancora ma, sulla strada per recarmi dallo zio, mi sono sentito obbligato a passare con il calesse davanti alla tomba di papà e ad entrare.

Quello che ho visto all’interno della tomba mi ha calmato il cuore. La bara era stata richiusa, le rose rimesse amorevolmente al loro posto e il pavimento di marmo era stato pulito; anche l’orribile sega e il martello erano stati portati via, e tutto appariva come era stato prima della profanazione. Ho provato una profonda gratitudine per lo zio, che aveva superato il suo dolore per occuparsi di quella terribile faccenda, alleviando così il mio e proteggendo il resto della famiglia.

Quando sono arrivato al castello, la mia malinconia si è riaccesa alla vista della scrivania di mio padre, che era proprio come lui l’aveva lasciata, in una stanzetta nell’ala est, con una magnifica vista dei Carpazi. Tutto era ordinato e ben organizzato; con facilità, ho trovato tutte le informazioni finanziarie dello zio, e presto ho dimenticato la mia tristezza mentre mi immergevo nel lavoro.

In tutta onestà, sono stato sorpreso dalla quantità delle ricchezze di Vlad. Considerandone il livello, ci sono meno domestici di quanto ci si potrebbe aspettare: soltanto tre cameriere, un cuoco, uno stalliere, un giardiniere, il maggiordomo e… naturalmente, quello sgradevole cocchiere, Laszlo.

Dopo aver parlato con il soprintendente dei campi dello zio, ho fatto la più sconvolgente delle scoperte: la terra della nostra famiglia è lavorata dai rumini, dei veri e propri servi, sui quali lo zio ancora possiede gli antichi droits du Seigneur! Il feudalesimo è, di solito, un sistema ingiusto in favore del Signore che possiede la terra. I servi gli pagano le decime per lavorarlo, poi un altro dieci per cento del ricavato, oltre a pagare il bir, una tassa personale piuttosto ingente per la “protezione”. Nel caso di Vlad, però, il rumini non paga le decime, ma solo il cinque per cento del ricavato dalla vendita del raccolto e un bir annuale di pochi centesimi (come se ancora temessimo i predoni turchi e, per una somma talmente irrisoria, offrissimo a tutti il rifugio delle mura del castello degli Tsepesh durante le guerre).

Un’altra sorpresa: lo zio possiede la maggior parte del villaggio, eppure non riceve affitti. Soltanto un accordo sembra a suo vantaggio: i servi sono tenuti a fare qualunque lavoro Vlad chieda, e in qualunque momento lo chieda. Oggi, uno di loro era al castello, e stava rimettendo la malta a qualche pietra che si era mossa vicino all’entrata. Si è inchinato educatamente mentre mi avvicinavo ma, mentre lo sorpassavo, ho udito un borbottio sommesso sul fatto che doveva trascurare il necessario lavoro nei campi in favore del voievod, del Principe. Lavorava con una lentezza che mi dispiacque, alla luce della generosità di Vlad.

Pensare che il feudalesimo sia ancora vivo, oggigiorno e in questo secolo…! Chiaramente Vlad raccoglie solo una frazione di ciò a cui ha diritto. Non è questo il modo di arricchirsi; sarebbe più remunerativo liberare i servi dai loro obblighi e assumerli nuovamente come lavoranti a un salario più basso e più ragionevole, intascando noi stessi i profitti che si hanno dalla vendita dei raccolti. La sua stravagante bontà, temo, porta i servi a sfruttarlo.

Tuttavia non è questo che mi turba tanto quanto la nozione stessa di feudalesimo, che suggerisce come Vlad “possieda” completamente i contadini e le loro case. Nessun uomo ha il diritto di controllarne un altro in questo modo. Sarebbe molto più giusto per tutti il sistema di un onesto salario per una giusta giornata lavorativa.

Sono rimasto sorpreso anche dalle alte paghe — molto più di quanto un domestico qualificato potrebbe ricevere in Inghilterra — pagate ai servi della casa, il che certamente non spiega la loro fredda, ma educata, condotta verso di me. La sotterranea ostilità è sempre lì, sebbene non riesca ancora a decidere se essi mi disprezzino o mi temano, oppure entrambe le cose.

Solo Masika Ivanovna ha un buon carattere, e questa è una circostanza fortunata, dato che è stata assegnata come cameriera dell’ala est (dove si trova il mio ufficio) e ovest (dove dimora lo zio). Le altre due cameriere, Ana ed Helga, hanno lo stesso freddo e acido comportamento di Laszlo, nonostante la loro giovinezza.

Tuttavia, comincio a interrogarmi sulla sanità mentale di Masika Ivanovna. C’è una strana aria di disagio in questo castello, dovuta, senza dubbio, al risentimento dei servi e alle strane abitudini dello zio, e io sospetto che decine d’anni di servizio in questo luogo abbiano un qualche effetto sulla mentalità superstiziosa di un contadino.

Dopo essermi presentato ai domestici nell’ala principale ed essermi ritirato nell’ufficio di papà per lavorare per un po’, è apparsa Masika Ivanovna… credevo per eseguire i suoi compiti giornalieri. Con ostentazione, ha spolverato tutti i mobili, poi, a disagio, ha indugiato così a lungo che, alla fine, ho interrotto il lavoro per chiedere se avesse qualcosa da dirmi.

Allora si è fermata, e la sua espressione è diventata inquieta, come se stesse lottando per prendere una decisione difficile. Infine, ha abbassato il suo straccio per spolverare, è andata fino alla porta semiaperta, e ha guardato nervosamente lungo il corridoio oscuro, come se si attendesse di vedere qualcuno nascosto nell’ombra. Poi ha ripetuto la sequenza guardando fuori dalla finestra…! Quando si è sentita rassicurata, si è avvicinata talmente che tra i nostri volti non c’era un palmo di distanza e ha bisbigliato:

«Vi devo parlare, signorino! Ma dovete giurare che non rivelerete a nessuno quello che vi dirò, o costerà la vita a me e a mio figlio!».

«Le vostre vite?», ho chiesto, estremamente sorpreso dal suo strano comportamento. «Di cosa stai parlando?».

Parlai con un tono di voce normale: questo l’allarmò e, con un’espressione angosciata, alzò un dito alle labbra per dirmi di fare silenzio.

«Prima, giurate! Giurate davanti a Dio!».

«Io non credo in Dio», risposi, un po’ freddamente. «Ma ti posso dare la mia parola di uomo d’onore che non dirò a nessuno ciò che mi rivelerai».

Studiò intensamente il mio viso, la fronte aggrottata per l’ansia. Qualunque cosa vi trovò sembrò soddisfarla poiché, alla fine, annuì e disse con voce bassa:

«Dovete andarvene immediatamente, signorino!».

«Andarmene?», chiesi con indignazione.

«Sì! Partite e ritornate in Inghilterra! Oggi, prima che il sole tramonti!».

«Perché mai dovrei volerlo fare?».

Lei non rispose immediatamente, ma sembrò incapace di trovare le parole appropriate, e così approfittai del suo silenzio per continuare.

«Ad ogni modo, non posso. Mia moglie è a meno di tre mesi dal parto: temo che il recente viaggio l’abbia già provata».

La decisione che c’era nella mia voce sembrò spaventarla, tanto che i suoi occhi si riempirono di lacrime. Sconvolta, cadde in ginocchio davanti alla mia sedia, le mani serrate in un gesto di supplica, come Cristo che pregava nel Getsemani.

«Per favore… per amore di vostro padre, allora! Andatevene presto!».

«Perché?», domandai, afferrandola per il gomito e cercando di farla rialzare in piedi. «Perché devo partire?»

«Perché, se non lo fate, sarà troppo tardi, e voi, la vostra famiglia e il bambino sarete in un terribile pericolo. A causa del Patto…».

Non aveva senso; nondimeno, alle sue parole qualcosa si mosse nella mia memoria. Il volto di Masika Ivanovna svanì. Di nuovo, vidi attraverso gli occhi di un bambino di cinque anni: guardavo fiducioso mio padre nel momento in cui il coltello scendeva in un luccicante arco d’argento.