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Fu deluso di sapere che lo zio non parlava inglese e che io (e papà prima di me) avevamo tradotto tutte le sue lettere, poiché aveva intenzione di fargli un’intervista e sarebbe stato costretto a farla in tedesco. Si rallegrò moltissimo quando gli offrii i miei servigi come traduttore.

Sebbene sia un giornalista di professione, viene da una famiglia di commercianti. In apparenza, sono piuttosto benestanti, poiché sfoggia un bell’orologio da tasca d’oro con un intarsio d’argento o di oro bianco, e, al mignolo, porta un anello d’oro con lo stesso motivo. Non ho potuto fare a meno di divertirmi in segreto per quello sfoggio di tali fronzoli familiari da parte di un borghese: qual è la fonte di quell’orgoglio?

Ma, sentitemi! Solo un giorno è passato dalla discussione con lo zio, e già sembro uno snob aristocratico. Il signor Jeffries potrà essere un uomo qualsiasi, nondimeno è molto istruito e intelligente, e ha degli occhi rapidi, mobili, che afferrano tutto, nonché un’incessante curiosità: tutte buone qualità per un giornalista.

Ho trovato la sua compagnia così gradevole che l’ho accompagnato in un giro per il castello, sebbene, naturalmente, le stanze private dello zio fossero inaccessibili. Mentre salivamo la scala a chiocciola di pietra, dissi:

«Ho tradotto la lettera che mio zio vi ha spedito da Bistritz; quindi, mi pare che stiate scrivendo una sorta di articolo giornalistico,… vediamo… per il «London Times»? E desiderate intervistare lo zio? Di cosa tratta precisamente l’articolo? Storia transilvanica? Viaggi?».

Al sentire ciò, il signor Jeffries si illuminò; il suo viso è elastico, meravigliosamente mobile.

«Non precisamente», rispose. «Riguarda più il folklore del vostro paese. Vostro zio conosce molte cose su delle affascinanti superstizioni…».

«Sì», risposi infastidito. «Tutti abbiamo sentito quello che dicono i contadini».

Suppongo vi fosse un accenno di rabbia nella mia voce, poiché il signor Jeffries lo colse immediatamente e il suo tono si addolcì.

«Naturalmente, le superstizioni sono tutte molto ridicole. Sono certo che la vostra famiglia le trova seccanti e divertenti allo stesso tempo. Io sono, ovviamente, un uomo razionale, ed è mio intento mostrare queste superstizioni per quello che sono, ossia delle sciocchezze, per far vedere che non c’è alcuna verità dietro di esse. Le lettere di vostro zio lo mostrano come un uomo estremamente gentile e buono».

«Lo è», dissi, sollevato. «Lui è estremamente generoso con la sua famiglia… anche se è un po’ solitario».

«Be’, questo è abbastanza normale. Perché dovrebbe voler andare tra gente che lo crede un mostro?».

Nell’istante in cui Jeffries pronunciò queste parole, seppi immediatamente che aveva una grande capacità di intuizione. Naturale che avesse ragione; ciò spiegava perfettamente perché Vlad accettava di vedere la sua famiglia e Laszlo, ma era riluttante a vedere i domestici. L’oscuro senso di incertezza creato dal sinistro avvertimento di Masika Ivanovna e la rigidità di Vlad circa i rumini, svanirono davanti alla luce del solare e logico carattere di Jeffries.

Allora mi confidai con lui circa il desiderio dello zio di andare in Inghilterra e, più ne parlavo con lui e pensavo di liberarmi dall’ambiente tetro e dalle superstizioni dei contadini, più la prospettiva diventava allettante. Discutemmo di quanto la Transilvania fosse arretrata rispetto al resto del mondo che cambiava. Mi chiese bruscamente se la mia famiglia si sentisse sola lì, ed io ammisi che la cittadina stava morendo e che una delle mie più grandi preoccupazioni era il nostro isolamento.

La conversazione volse poi ad un argomento più allegro, e parlammo dell’Inghilterra, mentre lo conducevo nel salotto dell’ala sud, dove una grande finestra si affaccia su una vista che incute timore: per alcune migliaia di piedi al di sotto si apre il grande precipizio sul quale sorge il castello, circondato da una vasta estensione di foresta color verde scuro che si allunga fino all’orizzonte.

«Mio Dio!», sussurrò Jeffries, guardando tutto attentamente. «Dev’essere profondo un miglio!».

Apparentemente, deve avere un certo timore dell’altezza: tolse, infatti, un fazzoletto dalla tasca del suo gilet e si asciugò la fronte sudata (lo confesso: repressi un sorriso di condiscendenza quando vidi il monogramma di una grande “J” sul fazzoletto).

Lo rassicurai che non era proprio un miglio, e gli spiegai come il castello fosse stato costruito circondato da tre lati da un precipizio (ad est, sud e ovest) in modo da poter essere più facilmente difendibile dagli invasori: principalmente i Turchi provenienti dal sud.

Lui ascoltò con estremo interesse e cominciò persino a prendere degli appunti su un piccolo blocco ma, dal momento che quella vista vertiginosa lo metteva a disagio, lo condussi giù nel piano nobile dell’ala centrale, in quel soggiorno cupo dove, nei secoli precedenti, i miei antenati avevano intrattenuto altri nobili.

Lui si stupì molto per le eccellenti condizioni dell’antico mobilio e per lo splendore degli arazzi di broccato, alcuni intessuti con l’oro. Quando ci voltammo verso il ritratto — più grande del naturale — che dominava l’ampia parete sopra il caminetto, trattenne il respiro e si voltò verso di me per la sorpresa…

«Ma… siete voi!», esclamò.

Sorrisi appena quando le sue parole echeggiarono contro il soffitto dall’alta volta.

«È difficile. Questo è stato dipinto nel quindicesimo secolo».

«Ma guardate», insistette Jeffries con entusiasmo. «Ha il vostro naso», e qui indicò il tratto lungo e aquilino del soggetto, «i vostri baffi, le vostre labbra», e indicò i neri baffi spioventi (in tutta onestà, molto più folti dei miei) sopra un generoso e rosso labbro inferiore, «i vostri capelli scuri…».

A questo punto si fece silenzioso, poiché era arrivato agli occhi.

«Come potete vedere», dissi, ancora sorridendo, «i suoi capelli erano ricci e lunghi fino alle spalle, mentre i miei sono tagliati piuttosto corti, secondo lo stile moderno».

Rise.

«Sì, ma con un taglio appropriato…».

«E c’è la questione degli occhi. I suoi sono verde scuro; i miei sono nocciola».

Mi lanciò un’occhiata per verificarlo e concesse:

«Sì, avete ragione. Gli occhi sono del tutto diversi; i suoi sono piuttosto vendicativi e freddi, non trovate? Ma, per quanto riguarda il colore, i vostri hanno un po’ di verde in loro e la rassomiglianza è ancora notevole».

«Non è nulla se paragonata alla rassomiglianza con lo zio. Naturalmente, gli occhi dello zio sono simili a quelli».

«Allora devo memorizzare ogni tratto di questo visto!», esclamò Jeffries. «E, quando incontrerò vostro zio, me lo ricorderò a memoria e li confronterò!». Alzò la penna dal suo block-notes e lesse socchiudendo gli occhi la placca di ottone sotto al ritratto. «Vlad Tepes?».

Lo pronunciò «Te-pes».

«Tsepesh», lo corressi. «Non vedete quella piccola cediglia, lì sotto alla t e alla s? Cambia la pronuncia».

«Tsepesh», ripeté Jeffries, scrivendo sul suo blocco. «Sembra una persona importante».

Mi raddrizzai pieno di orgoglio.

«È il Principe Vlad Tsepesh. Nato nel dicembre del 1431, prese il potere per la prima volta nel 1456, e morì nel 1476. È omonimo di mio zio».

«Omonimo?».

Lo scrivere con foga cessò; la penna si fermò sopra la carta. Jeffries mi guardò battendo le palpebre, confuso.