«Forse… forse c’è qualcosa che non capisco circa i nomi rumeni».
«Che cos’è che costituisce una difficoltà per voi? La scrittura…?»
«No, no, quella la capisco, ma…». Tirò fuori un altro pezzo di carta della tasca, lo spiegò e me lo mostrò. «Come lo dovrò chiamare correttamente?».
Il biglietto che avevo tradotto era stato firmato con l’attenta e delicata mano dello zio; quando vidi la firma, rimasi tanto colpito da rimanere senza parole. Non so se Jeffries notò la mia sorpresa, poiché mi ripresi rapidamente e gli restituii il biglietto con un sorriso forzato.
«Lo zio ha una predisposizione per i tiri mancini», mentii, «e così lui, scherzosamente, ha usato quel soprannome datogli dai contadini».
In verità, era un soprannome, sebbene non inventato dallo zio. Era stato dato da paurosi rumini all’uomo del ritratto.
«Se questo soprannome piace al mio generoso ospite», disse Jeffries, «allora lo chiamerò così ma, per favore, spiegatemi…».
«Dracula», pronunciai l’odiato nome con disgusto, poi indicai qualcosa. «Vedete il drago in basso, sulla destra del ritratto?».
Jeffries osservò più da vicino lo stemma di Vlad, dov’era raffigurato un drago alato con la coda biforcuta, che si attorcigliava intorno alla figura di una doppia croce.
«Il padre di Vlad, Vlad Secondo, fu un governatore indotto dall’imperatore ungherese a far parte di una setta cavalleresca segreta, conosciuta come l’Ordine del Drago», continuai. «Lui usava questo emblema sui suoi scudi e sulle monete. È questa la ragione per cui i boiers — i nobili — cominciarono a chiamarlo dracul, il drago, ma Vlad Secondo non usò mai tale nome per sé, se non per scherzare.
Sfortunatamente, in rumeno, la parola dracul ha anche il significato di “Demonio”; udendo quel nome, i superstiziosi contadini credettero che Vlad, che era conosciuto come un temibile e crudele tiranno, fosse arrivato al potere perché si era alleato con Satana e che l’Ordine del Drago fosse, in realtà, una setta dedita alla conoscenza profonda della Magia Nera. Suo figlio, Vlad Terzo — il cui ritratto vedete adesso davanti a voi — fu ancora più assetato di sangue, ancora più temuto. Il popolo si riferì a lui come a Dracula, il Figlio del Demonio, poiché il suffisso — a significa “figlio di”. Oggigiorno, i contadini temono la nostra famiglia per questa ragione, e continuano a chiamarci Dracul. Lo intendono come un insulto e non come un onore».
«Le mie più profonde scuse se vi ho offeso», disse Jeffries, con un tono malinconicamente sincero, continuando, però, sempre a scrivere. «Capisco che questo atteggiamento abbia causato alla vostra famiglia non poco dolore. Vostro zio però ha mantenuto un ammirevole senso dello humour riguardo alla faccenda, per essere capace di firmarsi per scherzo con questo nome, considerando la natura dell’articolo che sto scrivendo».
Le sue maniere erano così gentili che riuscii a fare un piccolo e mesto sorriso.
«Temo di non condividere il senso dello humour dello zio riguardo a queste questioni».
Non gli dissi l’intera verità: che il cognome usato per l’intera famiglia era Dracul, senza la a. Secondo la logica dei contadini, lo zio avrebbe dovuto firmarsi, per scherzo, come Vlad Dracul, poiché soltanto il Figlio del Demonio — solo l’uomo del ritratto, nato quattro secoli prima — poteva rivendicare il diritto al nome di “Dracula”.
«Potrei chiedervi circa l’altro simbolo… là, a sinistra in basso, quello che si trova all’opposto dello stemma del drago?».
Indicò con un gesto la testa di un lupo sopra al corpo arrotolato di un serpente.
«Quello è lo stemma della nostra famiglia. È molto antico. Il drago era il simbolo del regno di Vlad, ma il lupo rappresenta la nostra discendenza. I Daci, che abitavano questo paese prima che lo conquistassero i Romani, si riferivano a se stessi come a degli “uomini-lupo”».
«Ah, sì…». I suoi occhi chiari si illuminarono di interesse mentre continuava a scribacchiare. «Gli antichi Daci… ma c’erano delle leggende, non è vero, sulla loro abilità di trasformarsi veramente in altre creature, come il lupo…?»
«Tutte ridicole superstizioni, naturalmente».
«Naturalmente». Il sorriso di Jeffries era luminoso. «È tutta superstizione, ma è affascinante, non è vero, vedere come le leggende si sviluppino dalla realtà…?».
Dovetti acconsentire.
«E il serpente…?», insistette. «Pensate forse che i contadini lo abbiano visto e siano portati a credere ancora al Diavolo?»
«Forse, ma solo una persona ignorante farebbe così. Nei tempi pre-cristiani, i serpenti erano riveriti come creature che possedevano il segreto dell’immortalità poiché, quando cambiavano la loro vecchia pelle, “morivano” e “nascevano” di nuovo. L’ho sempre considerato come il simbolo del fervente desiderio che la discendenza familiare continui ininterrotta per sempre».
Il giro continuò, e la nostra conversazione si rivolse ad altri argomenti. Gli raccontai la storia della nostra famiglia, del regno del primo Vlad Tsepesh, delle vittorie sui Turchi e dei molti importanti membri della famiglia Tsepesh sparsi in tutta l’Europa orientale.
Fu piuttosto colpito, e annotò attentamente tutti i dettagli. Sono fiducioso che l’articolo sarà preciso e avvincente, e gli ho chiesto se sarebbe stato così gentile da mandarmi una copia del lavoro finito, così che io potessi tradurlo in rumeno per farlo conoscere ai miei compatrioti transilvani, anche se, sfortunatamente, coloro che hanno bisogno in modo particolare di leggere l’articolo, sono proprio quelli che non sanno leggere. Lui ha acconsentito a farlo.
Cominciammo, allora, a parlare di nuovo dei contadini e delle loro superstizioni. Jeffries mi confessò che, immediatamente dopo il suo arrivo, una delle cameriere — “una donna bionda, tarchiata, di mezz’età”, ed io compresi che intendeva Masika Ivanovna — si era tolta il crocifisso dal collo e glielo aveva dato, supplicandolo perché lo indossasse. Lui l’aveva accontentata e lo aveva messo ma, quando lei aveva lasciato la camera, se l’era tolto.
«Io appartengo alla Chiesa d’Inghilterra e questa non sarebbe una cosa buona», disse, sebbene chiarisse che era praticante solo per tradizione e per rispetto alla famiglia, non per fede. Terminammo la discussione circa la gente del luogo, trovandoci d’accordo che l’istruzione pubblica era l’unica soluzione per la loro condizione.
La sua compagnia era così piacevole che io insistetti perché venisse a casa mia per cenare presto (attirandolo con la promessa di una visita alla cappella e alla tomba di famiglia). In funzione di questo fatto, lasciai un biglietto nello studio dello zio e promisi che avrei rimandato l’ospite per le nove.
Così è venuto con me a casa, e Mary ed io abbiamo passato una gradevole serata in sua compagnia, con il risultato che non l’ho riaccompagnato al castello se non molto tardi.
Ma è quasi l’alba: ho passato delle ore a scrivere, e sono esausto. Ora, a letto. Il resto a dopo.
Il diario di Mary Windham Tsepesh
9 aprile. Scrivo queste righe perché mi sono ritirata presto, mentre Arkady si gode l’affascinante compagnia del nostro ospite, il signor Matthew Jeffries. Li ho lasciati che ridevano nella sala da pranzo mentre gustavano il cordiale e i sigari del dopo cena. Sono contenta che Arkady abbia trovato una piccola gioia nella compagnia di questo signore: ne ha bisogno, povero caro, proprio come io ho bisogno della possibilità di togliermi il peso da cuore in privato con lo scrivere.
Dopo essere stata testimone dell’appuntamento tra Zsuzsanna e Vlad, ieri notte, sono rimasta estremamente turbata ma ancora non ho detto nulla ad Arkady, poiché lui mi è sembrato più turbato di me. Ho deciso di affrontare prima l’argomento con Zsuzsanna, con delicatezza, poiché temo che, essendo innocente, sia stata portata fuori strada dal suo più navigato prozio e, forse, non capisce nemmeno che quello che sta facendo è sbagliato. Vlad è più grande e più saggio, e perciò è lui il colpevole.