Выбрать главу

Confesso che avevo dimenticato la bellezza del mio paese natio, dopo anni di vita in una città affollata e sporca. L’aria era pulita e dolce, libera dal cattivo odore della città. Era l’inizio della primavera; l’erba era già verde, e gli alberi da frutta stavano appena cominciando a fiorire.

Dopo poche ore di viaggio il sole cominciò a tramontare, gettando un pallido chiarore rosato sul lontano scenario dei picchi a spirale dei Carpazi coperti di neve. Persino io trattengo il fiato di fronte al loro terrificante splendore. Devo ammettere che, mescolato al crescente senso di timore, provai un fiero orgoglio e una struggente nostalgia per una cosa che avevo dimenticato di possedere.

Casa. Una settimana prima, questa parola avrebbe indicato Londra…

Man mano che il crepuscolo avanzava, un’oscurità lugubre permeava il paesaggio e i miei pensieri. Mi trovai a riflettere sul lampo di timore che avevo colto negli occhi del nostro conducente, nonché sull’ostilità e sulla superstizione che erano implicite nelle sue azioni e nelle sue parole.

Il cambiamento nel paesaggio rispecchiava il mio stato mentale. Più ci avventuravamo nell’interno delle montagne, più la vegetazione ai lati della strada diventava rachitica e nodosa, finché, risalendo un ripido pendio, vidi, lì vicino, un frutteto di alberi di prugne deformati e morti, che si innalzavano neri contro il crepuscolo di un porpora evanescente. I tronchi erano curvi a causa del vento e del tempo, come le vecchie contadine che portano sulla schiena un fardello troppo pesante; i rami contorti erano tesi verso il cielo in una silenziosa supplica per implorare pietà. La terra sembrava diventare sempre più deforme, come era deforme la sua gente, resa storpia più dalla superstizione che da delle infermità fisiche.

Potremo mai essere veramente felici tra loro?

Poco dopo cadde la notte, e i frutteti lasciarono il posto ad alte e dritte foreste di pini. Le forme indistinte degli alberi scuri che scorrevano via contro le montagne più scure, e il dondolio della carrozza, mi cullarono fino a farmi cadere in un sonno agitato.

All’improvviso feci un sogno.

Con gli occhi di un bambino, guardai verso l’alto ai sempreverdi torreggianti nella foresta, oscurata dal castello del mio prozio. Le cime degli alberi imprigionavano le nebbie che salivano, e la fresca aria umida al di sotto odorava di pioggia recente e di pini. Una calda brezza mi scompigliò i capelli, poi agitò le foglie e l’erba che luccicava, adorna delle gocce di pioggia illuminate dal sole.

Il grido di un ragazzo ruppe il silenzio. Mi voltai e, nelle chiazze di luce, vidi il mio fratello maggiore Stefan, un allegro ragazzino di sei anni, con gli occhi scuri e a mandorla che brillavano di malizia e il viso arrossato e rotondo che sfoderava un ampio sorriso da monello sopra il mento stretto. Accanto a lui si trovava l’enorme e grigio Shepherd, mezzo mastino e mezzo lupo, che era cresciuto fin da cucciolo insieme a noi ragazzi.

Stefan mi fece cenno di seguirlo, poi si voltò e si mise a correre, mentre Shepherd gli saltava accanto con gioia, verso il cuore della foresta.

Esitai, improvvisamente timoroso, ma mi convinsi di essere al sicuro finché Shepherd ci accompagnava, poiché non c’era mai stato un compagno o un protettore più tenacemente fedele, e in qualche modo sapevo, con la certezza del sognatore, che nostro padre era nelle vicinanze e che non avrebbe permesso che ci accadesse alcun male.

Così inseguii mio fratello, mezzo ridendo, mezzo gridando, arrabbiato per l’ingiustizia del fatto che le sue gambe erano più lunghe e che, essendo di un anno più grande di me, poteva correre più velocemente. Lui si fermò per lanciare un’occhiata alle sue spalle con la soddisfazione di vedermi rimanere indietro, prima di scomparire alla vista nei boschi scuri e luccicanti.

Corsi, chinandomi poiché dei rami bassi si allungavano a graffiarmi le guance e le spalle annaffiandomi con le gocce di pioggia che avevano trattenuto. Più mi inoltravo nella foresta, più essa diventava scura e più il mio viso era colpito dai rami bassi, finché i miei occhi si riempirono di lacrime e le mie risatine si trasformarono in respiri affannosi. Mi misi a correre più veloce, sempre più veloce, battendo contro i rami che ora sembravano dei demoni intenti ad acchiapparmi, e quasi persi di vista mio fratello e il cane. La risata sonora di Stefan si faceva sempre più distante.

Continuai, facendomi strada attraverso i boschi in preda a un oscuro panico, per un tempo indefinito. Poi la risata di mio fratello si interruppe con un colpo sordo e un breve grido stridulo. Quindi seguì un attimo di silenzio, e poi un basso e terrificante ringhio. Il ringhio divenne un ruggito, e mio fratello urlò di dolore. Mi precipitai, gridando il nome di Stefan, nella direzione del trambusto.

Quando raggiunsi una radura, mi gelai per l’orrore e, nelle nebbie illuminate dal sole che filtrava attraverso gli alberi, vidi uno spettacolo orrendo: Shepherd, chino sul corpo immobile di Stefan, con le forti mascelle serrate sul collo di mio fratello. Al sentire il mio passo, l’animale alzò la testa e, così facendo, lacerò la tenera carne con i suoi denti aguzzi. Il sangue gocciolava dal suo muso argenteo.

Lo fissai negli occhi. Erano chiari, senza colore; prima, erano sempre stati dei gentili occhi di cane, ma ora vidi soltanto gli occhi bianchi di un lupo, di un predatore.

Al vedermi, Shepherd scoprì i denti ed emise un basso ringhio minaccioso. Lentamente, molto lentamente, si accucciò… poi saltò, volando senza sforzo attraverso l’aria, nonostante la sua mole. Terrorizzato, rimasi dov’ero come inchiodato, ed emisi un gemito.

Dietro di me ci fu un’esplosione e davanti a me un acuto guaito, quando il cane cadde morto a terra. Mi voltai e vidi mio padre. Velocemente, abbassò il fucile da caccia e corse al fianco di Stefan, ma ormai era troppo tardi: la gola di mio fratello era stata squarciata da Shepherd, fino ad allora mansueto. Procedetti per trovare il tronco dell’albero sul quale Stefan aveva inciampato e la roccia dove aveva battuto la testa.

E poi, con la nitida chiarezza che contraddistingue i più vividi e terrificanti incubi, vidi mio fratello che moriva.

Il piccolo squarcio sulla fronte aveva sanguinato a profusione, ma non era nulla in confronto alla gola, che era stata così gravemente maciullata che la pelle lacerata pendeva dal collo in un brandello sanguinolento, rivelando l’osso, la cartilagine, e il muscolo di un rosso brillante.

La cosa peggiore era che lui era ancora vivo e stava per morire, lottando per emettere l’ultimo grido, l’ultimo respiro; i suoi occhi pieni di orrore erano aperti, e si fissarono nei miei in una silenziosa supplica di aiuto. Delle minuscole bollicine di un rosso vivo rotolavano dalla laringe scoperta, e ognuna di esse luccicava come un prisma a causa della luce del sole che la attraversava, simile a un centinaio di arcobaleni in miniatura immersi nel sangue. Lì accanto, i fili d’erba si chinavano, sovraccarichi di goccioline di uno splendente cremisi.

Mi svegliai da quella terribile visione con un sussulto, quando il cocchiere tirò le redini dei cavalli per fermarsi. Dovevo aver dormito per un lasso di tempo piuttosto lungo, poiché eravamo già arrivati, attraverso il Passo di Borgo, nel luogo dell’appuntamento. Anche Mary sembrava aver dormito; per un istante parve disorientata quanto me, ma poi ci riprendemmo e radunammo le nostre cose in attesa dell’arrivo del calesse dello zio.

Non dovemmo aspettare più di alcuni minuti prima di udire il rumore delle ruote e il rimbombo degli zoccoli. Dalle nebbie della foresta apparve il calesse, tirato da quattro stalloni neri, magnifici e nervosi, che tremavano, con gli occhi e le narici ben aperti, mentre il cocchiere dello zio scendeva a salutarci. Il vecchio Sandu era morto due anni prima, e questo era uno nuovo, uno che non avevo mai incontrato, dai capelli biondo scuro e il viso senza espressione, di modi freddi e sgradevoli.