Dopo un po’, si voltò verso Arkady e disse, con una voce sommessa che riecheggiava debolmente dall’alto soffitto:
«Ho dimenticato di chiedere… quando eravamo davanti al ritratto di Vlad Dracula».
A questo punto lo guardai aggrottando la fronte, poiché avevo già udito una parola simile — Dracul — sulle labbra dei domestici e su quelle del vecchio cocchiere a Bistritz.
Il signor Jeffries s’interruppe e si corresse subito con uno sguardo di scusa verso mio marito.
«Chiedo scusa, Vlad Tsepesh… Il nome Tsepesh significa qualcosa?», gli chiese.
Arkady rimase a guardare fisso le nicchie volgendoci la schiena, ed io mi resi conto dal suo tono distante che stava rimuginando su ciò che lo aveva turbato durante gli ultimi giorni… qualcosa che sospetto sia legato al castello e alla morte di suo padre.
«Impalatore», disse tranquillamente, ed io mi accorsi immediatamente che aveva del tutto dimenticato la mia presenza.
In molte cose, è come sua sorella, soggetto a improvvisi e intensi sogni ad occhi aperti che lo distolgono completamente dal presente.
«Non è molto più nobile, nel significato, del nome Dracul ma, almeno, i contadini non lo pronunciano con lo stesso odio, e non implica nulla di soprannaturale. A quei tempi, impalare era una comune forma di esecuzione capitale».
Il signor Jeffries inarcò le chiare sopracciglia in maniera incredula mentre si avvicinava ad Arkady, del quale seguì lo sguardo su una lapide d’oro che portava incisa l’iscrizione VLAD TEPES.
«Davvero? La storia indica che era una pratica comune soltanto tra i Turchi. I contadini dicono che Vlad riprese i loro metodi e trasformò tutto questo — e mosse il braccio per indicare l’intero territorio — in una vera foresta di impalati. Dicono che l’odore…».
A quel punto il signor Jeffries si interruppe, conscio dell’orrore delle sue stesse parole e si voltò verso di me.
«Oh, mia cara signora Tsepesh, perdonatemi! Come sono stato insensibile a mettervi in agitazione, menzionando questi fatti terribili…».
Risi con gaiezza, sebbene, di fatto, non avessi mai udito tali cose, e ne fossi rimasta affascinata in modo orrendo. A quel suono, Arkady si riprese dalle sue fantasticherie e ci guardò, anche lui seccato che quelle cose fossero discusse in mia presenza.
«Non sono una delicata fanciulla abituata a svenire, signore», lo rassicurai.
Arkady arrossì, e venne accanto a me, prendendomi la mano.
«È vero», disse, guardandomi con affettuosa preoccupazione ma rivolgendosi a Jeffries. «Mary è la persona più equilibrata che io abbia mai conosciuto». Lanciò uno sguardo a Jeffries con un sorriso imbarazzato. «Le sono sempre grato per questa qualità. Qui, dove uno è circondato da superstizioni e oscure leggende, è veramente una qualità senza prezzo».
«Mio caro», gli dissi calma, «non devi cercare di proteggermi da queste cose. Come potrò essere in grado di confutare le strane credenze dei contadini se non ne so nulla?». Rivolta a Jeffries, gli chiesi poi con voce ferma e allegra: «Di chi stavate parlando?»
«Di Vlad Dracul… Perdonatemi, signora: di Vlad Tsepesh, che i contadini chiamano Dracula».
«Il Principe?», chiesi.
Jeffries mosse la sua lunga faccia in un modo che sembrò sia confermare che negare.
«Il suo omonimo», precisò, poi girò una pagina del blocco e cercò qualcosa, quindi rialzò lo sguardo. «Nato nel 1431, è presumibilmente morto nel 1476, sebbene i contadini non siano d’accordo».
Arkady fece un gesto verso la placca ai piedi di un loculo.
«Ecco la sua lapide, lì davanti a voi».
«Ma lui morì in quella regione del sud chiamata Valacchia, non è vero? Il luogo dove regnò».
«È vero», convenne mio marito. «Ma la famiglia si recò a nord, in Transilvania, subito dopo la sua morte, e portò con sé i suoi resti. Non era una pratica insolita».
Il tono del signor Jeffries divenne scettico.
«Sicuramente voi sapete che non è sepolto qui. È una finzione, cosicché, chi volesse cercare di profanare il suo corpo, non lo troverebbe».
Mio marito si voltò verso il suo ospite con gli occhi socchiusi e un leggero sorriso ironico sulle labbra.
«Signore, è chiaro che voi sapete sull’argomento molto più di quanto avete rivelato». Si fermò e guardò nuovamente la lapide. «È vero. È sepolto nel monastero di Snagov, nella natia Valacchia».
«I contadini, ancora una volta, non sarebbero d’accordo con voi, signore. Essi dicono che nemmeno a Snagov c’è il corpo. Forse è per questa ragione che i contadini affermano che è uno strigoi e accusano il vostro prozio…».
«Strigoi», ripetei, incapace di trattenermi, riconoscendo la parola che un giorno aveva usato Dunya. «Per favore, che significa questa parola?».
Arkady mi guardò bruscamente, chiaramente seccato di sapere che avevo sentito quel termine, ma Jeffries mi guardò negli occhi e disse:
«Un Vampiro, signora. Essi affermano che il vostro gentile e cortese prozio è, di fatto, Vlad l’Impalatore, conosciuto anche come Dracula, nato nel 1431; che ha fatto un patto con il Diavolo per ottenere l’immortalità, e che le anime degli innocenti ne sono il prezzo».
E rise come se l’informazione fosse incredibilmente divertente. Ma io e Arkady non ci unimmo a lui.
Jeffries comprese il disagio che le sue parole avevano provocato, e portò immediatamente la conversazione su un argomento più leggero.
Subito dopo abbandonammo la cappella e, quando lasciai mio marito e il suo ospite nella sala da pranzo, erano impegnati in un’amichevole discussione sull’ultimo evento letterario americano, quello del signor Edgar Allan Poe, e sul fatto se la sua poesia Il Corvo fosse una grande opera di genio come si credeva.
Mi sono quindi ritirata in camera da letto, pensando che, per quando avessi finito queste righe, Arkady sarebbe ritornato e che gli avrei confessato ogni cosa, ma ora sono quasi le undici e lui ancora non è venuto.
Sono stanca e desidero dormire, ma non riesco a evitare di guardare le pesanti tende tirate della finestra; non posso fare a meno di preoccuparmi per ciò che c’è dall’altra parte. I contadini hanno ragione: Vlad è un mostro. Soltanto, non riesco a capire di che tipo.
Capitolo quarto
Il diario di Zsuzsanna Tsepesh
10 aprile. Sto morendo d’amore.
Un’altra notte di sogni; questa mattina sono così debole che riesco a malapena a prendere su la penna. Dopo una frase o due, la devo posare di nuovo. La schiena mi duole terribilmente, dalla cima della spina dorsale giù fino alla fine. E in modo così strano… talvolta sento come se i muscoli e le ossa si stessero muovendo, agitandosi sotto la pelle.
È venuto ancora. È venuto, e questa volta lo attendevo alla finestra aperta. Questa volta ho slacciato il nastro da sola, sebbene abbia permesso che lui, con delicatezza, tirasse via il leggero tessuto dalla mia pelle. Ho rabbrividito alla sua morbidezza e poi ho rabbrividito al fresco dell’aria notturna contro la mia carne nuda, seguita dal gelo delle sue mani e dal calore del suo respiro.
Anche questa volta è stato gentile e doppiamente audace. Ha tirato via la camicia da notte finché questa mi è caduta alle caviglie, premendo, nello stesso tempo, le sue labbra contro la mia pelle e scendendo lentamente verso il basso insieme alla stoffa, oltre la curva delle spalle, i miei seni, le mie costole; aprendo le labbra per assaggiare con la lingua la mia carne. Arrossisco nello scrivere che non si è fermato lì ma si è inginocchiato e ha continuato a baciare la soffice curva del mio stomaco, il mio addome e più in basso…