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«Che cosa stai dicendo Laszlo? Che il signor Jeffries è morto?»

«Non dico niente».

«Ne parlerò immediatamente allo zio», lo minacciai, alla qual cosa lui ridacchiò semplicemente, mi voltò la schiena senza nemmeno chiedermi il permesso, e si incamminò verso la porta.

E, mentre lo faceva…

Mentre lo faceva, vidi sulla parte posteriore di una delle sue due maniche bianche una grande macchia rossa delle dimensioni di una mela. Un gelo orribile discese su di me; non so come spiegarlo ma, in quel momento, seppi nel mio cuore che Jeffries era morto, e che io stavo guardando il suo assassino.

«Laszlo», dissi.

Si fermò e voltò la testa per fissarmi con il suo sguardo insolente.

«Che cos’è questo? Ti sei fatto male?».

Mi avvicinai a lui e con il pollice e l’indice presi un pezzetto di manica pulita tra le dita e la tenni in modo da poter meglio studiare la macchia.

Era sangue, non c’era dubbio, che cominciava a scurirsi, ma ancora sufficientemente vivido per indicare che era stato versato soltanto poche ore prima. Laszlo gettò un’occhiata in basso e tirò via immediatamente il braccio, ma la sua insolenza svanì un po’.

«Niente affatto. Stamattina ho ammazzato una gallina per il cuoco», rispose.

E si precipitò fuori dalla stanza.

Sembrava una spiegazione ragionevole, ma non riuscii a liberarmi del senso di terrore che mi invase. Fu allora che mi ricordai dell’involto che avevo visto sul sedile accanto a lui nella carrozza.

Lo seguii fuori e corsi giù per le scale, pensando di affrontarlo riguardo al contenuto dell’involto, ma lui era già svanito. Così scesi in cucina, dove seppi con domande indirette che il cuoco stava stufando dell’agnello e non sapeva nulla della gallina di Laszlo. Come poteva un qualunque assassino essere così audace, sfrontato, e insolente, da mettere in mostra con orgoglio gli effetti rubati alla sua vittima e poi alludere al crimine?

Soltanto un pazzo si sarebbe comportato così.

Queste rivelazioni erano semplicemente troppo opprimenti per poterle tenere per me. Quanto Vlad si alzò, andai a trovarlo nel suo studio. Ana aveva acceso il fuoco e le candele, cosicché la stanza era piena di un gradevole calore. Con le mani sui braccioli, diritto e regale come un re sul trono, lo zio sedeva davanti al caminetto in una delle due grandi sedie dallo schienale di cammello. Tra di esse, sul tavolino, c’era un piccolo vassoio d’argento, su cui si trovava un bicchierino di cristallo e una caraffa di slivovitz, senza dubbio una gentilezza per il forse sfortunato signor Jeffries.

Nell’istante in cui chiusi la porta, Vlad si alzò dalla sedia con eccezionale energia e voltò il viso verso di me, con gli occhi spalancati e ardenti. Prima che potessi pronunciare una sola parola, tuonò:

«Non devi mai portar via un ospite da questo castello senza il mio permesso! Mai! Hai capito?».

Fui talmente sorpreso che, per alcuni secondi, la voce mi mancò. Quelli non erano la voce di mio padre, gli occhi di mio padre: erano la voce di un Principe imperioso, e gli occhi dell’Impalatore dal sangue freddo del ritratto.

Il suo viso, lontano dall’avere il suo usuale pallore, era rosso per la rabbia, cosicché le sopracciglia bianche risaltavano in modo allarmante sulla fronte rosa, e un colorito ancora più rosato si stendeva sulle sue guance e sull’alto e stretto ponte del naso. Le labbra rosso cremisi erano contorte: il labbro inferiore rivelava in basso una fila di irregolari e brillanti denti bianchi.

Si era mosso tanto velocemente e con tale energia che pensai di guardare un uomo diverso. Di fatto, una striscia grigio ferro era apparsa su ognuna delle tempie.

Era diventato più giovane. Chiusi gli occhi, ma l’allucinazione non scomparve. Il cambiamento era lieve ma ben visibile, e del tutto impossibile, impossibile quanto l’apparizione di Stefan. Trasalii e mi portai una mano alla tempia per la sensazione ora familiare di pressione e udii, molto chiaramente, come se me le bisbigliassi nelle orecchie, le parole:

Stai impazzendo.

«Mi dispiace», balbettai, veramente spaventato, non per lo scoppio d’ira di Vlad ma per le mie stesse impossibili percezioni. «Non lo farò più».

Immediatamente la sua rabbia si affievolì; si raddrizzò e il suo possente corpo si rilassò.

«Bene. Bene…». Annuì con cupa soddisfazione; «Accetterò la parola di uno Tsepesh». Il suo tono divenne all’improvviso lieto, quindi fece un gesto verso la sedia accanto alla sua. «Ora, nipote, siediti, e dimmi come posso esserti d’aiuto».

Attraversai la stanza e sedetti di traverso sul bordo della sedia rivolto verso di lui, con le mani leggermente appoggiate sul bracciolo e fissandolo con uno sguardo incerto; cercavo di non mostrare il mio stupore di fronte al suo lieve ma evidente ringiovanimento. Ero talmente scosso, che lui disse:

«Devo scusarmi per il mio accesso d’ira, Arkady, ma ho stabilito soltanto poche regole per coloro che sono al mio servizio, ed esigo che vengano seguite. Non c’è un modo più rapido per provocare la mia ira». Versò quindi un bicchiere di slivovitz e me lo porse dicendo: «Bevi».

Lo presi, anche se non lo volevo e, dopo un piccolo sorso, lo posai.

«Ora», disse Vlad, con la sua solita calorosa sollecitudine, «per favore, dimentica il mo sfogo. Vedo che ti ha innervosito, e questa non era la mia intenzione. Dimmi, Arkady, dimmi cosa devo fare per aiutarti».

Azzardai timidamente: «È per il signor Jeffries che sono venuto». Quando ciò suscitò soltanto un’espressione di educato interesse, mi feci più audace: «È svanito senza lasciare traccia, lasciando dietro di sé tutte le sue cose».

«Davvero?», disse Vlad, sollevando le sopracciglia in un moto di leggera sorpresa.

Poi la sua espressione divenne pensierosa e fissò il fuoco riflettendoci sopra, mentre il suo colore rossastro si scuriva per il calore. La rabbia era svanita, ma il colore rosato delle sue guance persisteva; sembrava come se lo scoppio di rabbia lo avesse lasciato permanentemente rivitalizzato.

«Stranissimo», mormorò infine. «Suppongo di non dovermela prendere per questa improvvisa partenza… Gli Inglesi sono pieni di strane usanze».

Emisi un piccolo rumore di esasperazione.

«Ho vissuto tra gli inglesi per quattro anni. Non è loro abitudine scomparire così all’improvviso. Temo che gli sia accaduto qualcosa di terribile».

Si voltò a guardarmi, sconcertato per il grado del mio turbamento.

«Che cosa ti fa dire una cosa simile? Che cosa potrebbe mai accadere a un ospite, qui, nella mia casa?»

«Forse… forse qualcuno gli ha fatto del male; forse, lo ha persino ucciso».

All’udire ciò rise forte. L’imbarazzo e la rabbia mi provocarono un’ondata di calore alle guance, alla nuca; lui se ne accorse e immediatamente si ricompose, poi con un tono condiscendente e tranquillo, disse:

«Caro nipote… negli ultimi giorni hai sofferto una terribile tensione. Potrebbe essere questo che ti ha fatto saltare a questa conclusione? L’uomo è partito all’improvviso, ma come possiamo dire che ha subito un danno? Forse ha deciso semplicemente di tornare a Bistritz e nella fretta ha dimenticato il baule o, forse, ha qualche ragione per voler scomparire nella campagna. Forse se n’è andato scioccamente a passeggiare da solo nella foresta e i lupi gli hanno squarciato la gola. Chi lo sa? Forse non è il giornalista che pretende di essere, ma un criminale o un assassino che spera di sfuggire alla giustizia».

La voce mi tremò (sia per la rabbia causata dal mettere in dubbio la mia stabilità mentale che per la paura che così facendo avesse ragione) mentre rispondevo:

«Se avesse deciso di tornare a Bistritz, avrebbe chiesto a Laszlo di portarcelo e avrebbe preso le sue cose. Ma oggi Laszlo indossa il suo orologio e il suo anello. Non avrebbe osato fare un tale furto a meno che non sapesse che Jeffries non sarebbe ritornato».