«Forse è stato Jeffries a dare quelle cose a Laszlo».
«Non credo. Penso… penso che lui possa averlo ucciso e poi le abbia rubate».
«Ucciso?». Fece attenzione a non ridere ma questa volta permise alle sue sopracciglia di sollevarsi per l’incredulità. «Arkady, i miei domestici non oserebbero mai fare del male ad uno dei miei ospiti, te lo assicuro. Come puoi vedere, sono estremamente protettivo nei loro confronti».
«Forse la maggior parte dei domestici non lo farebbe, ma penso che Laszlo sia capace di un atto simile. Oggi, quando l’ho affrontato per l’orologio e l’anello e l’ho accusato di furto, ha detto che i morti non hanno proprietà. E aveva del sangue sulla manica, del sangue fresco. E questa mattina, quando sono arrivato nel cortile, stava uscendo con la carrozza, con un’espressione molto circospetta e sul sedile, accanto a lui, c’era un grosso involto».
Vlad ascoltò attentamente. Infine disse, con il tono paziente di uno che cerca di ragionare con un pazzo:
«Arkady. certamente il fatto di trasportare un involto in un calesse può essere spiegato e così il sangue…».
«Ha mentito sulla macchia di sangue», lo interruppi. «Ha detto che aveva ucciso un pollo per la cuoca, ma lei non ne sa niente».
Rifletté, poi continuò:
«Ma sei sicuro che quelle cose appartenessero al signor Jeffries? E che non hai capito male le parole di Laszlo? Ho la certezza che tutto questo debba essere soltanto un equivoco…».
«Non ho dubbi su quello che mi ha detto Laszlo, e l’orologio e l’anello di Jeffries hanno il monogramma della sua iniziale. Ieri li ha portati per tutto il giorno».
«Sei del tutto sicuro di questo?»
«Completamente», dissi, ma lessi l’incredulità nei suoi occhi.
«Vedo», disse Vlad lentamente, e si voltò per fissare il fuoco.
Sapevo che mi riteneva del tutto irrazionale e lottai per mantenere la calma, per evitare di dire qualcosa con una veemenza che potesse ulteriormente confermare la sua conclusione. Sedemmo per un po’ in silenzio e poi lui chiese:
«Cosa pensi si debba fare?»
«Andare dalle autorità di Bistritz», risposi, «e dire loro dei nostri sospetti. Lasciarli investigare sulla sparizione del signor Jeffries».
Di nuovo Vlad rifletté sulle mie parole e, dopo una lunga pausa, disse lentamente, in un tono così carezzevole che pensai immediatamente di essere un bambino rannicchiato nel letto, in ascolto della voce bassa e tranquillizzante del padre che racconta una favola.
«Arkady… ti chiedo di trattenere i tuoi impulsi e di darmi fiducia. Ti assicuro che nulla è accaduto al signor Jeffries e che le tue conclusioni sono… premature. Hai sofferto di un’enorme tensione emotiva; forse il dolore offusca il tuo giudizio. Lascia che passino due giorni. Per quel momento, sono certo che il mistero del signor Jeffries sarà risolto. Se non lo sarà, allora sarai tu il nostro investigatore. Sei intelligente, con un buon cervello; ti incaricherò di risolvere il mistero e, alla fine, provvederemo a che giustizia sia fatta. Soltanto, non c’è bisogno di disturbare le autorità. Mi prometti di avere fiducia in me?».
Mentre parlava, provai un’ondata di vertigine, il solito dolore simile a una morsa sul cranio, e la convinzione di stare per perdere il controllo della mia mente. Forse ero sciocco a sospettare di Laszlo sulla base di un indizio tanto piccolo, forse non potevo fidarmi di quello che i miei occhi avevano visto. Dopotutto, Vlad era lì, seduto davanti a me: un uomo improvvisamente ringiovanito di dieci anni.
«Lo prometto», dissi tristemente.
Vlad rifiutò di discutere di affari, dicendo che era chiaro che avevo bisogno di andare a casa presto e di riposare, e così me ne andai.
Quando passai di nuovo accanto alle camere degli ospiti, mentre uscivo dal castello, esse erano state svuotate completamente degli effetti personali di Jeffries; era come se lui non fosse mai esistito, non fosse mai venuto.
Lasciai il castello con il cuore pesante al pensiero di quello che avrebbe potuto essere accaduto al povero Jeffries, la mente perplessa da quello che avevo visto: il reale e l’irreale.
Come fare a distinguere la differenza?
Guidando verso casa, mentre il calesse procedeva attraverso il poggio erboso, fui distolto dalle mie ansiose fantasie dai nitriti nervosi dei cavalli e, per un attimo, vidi ciò che li aveva turbati: un grosso lupo grigio procedeva a balzi nella nostra stessa direzione, dal castello verso la casa. Scossi le redini, e i cavalli affrettarono il passo con gratitudine, ma mi ero ripreso a sufficienza per notare ciò che mi circondava, e non potei fare a meno di guardare oltre le mie spalle, a destra, la luminosa bellezza madreperlacea della luna, che veleggiava sopra il fitto della foresta.
La fissai soltanto alcuni secondi. Mentre così facevo, qualcosa di piccolo e pallido cominciò a materializzarsi contro lo sfondo della foresta nera; seppi immediatamente, prima che i miei occhi lo mettessero a fuoco, che era Stefan. Dopo la mutilazione di papà, non riuscivo a sopportare di guardare il viso o la gola di mio fratello, e così appuntai il mio sguardo sulla sua bianca camicia di lino e sulla macchia nera irregolare, che la luce brillante della luna faceva luccicare come seta.
Stefan alzò un braccio e indicò la foresta… nella stessa direzione, come aveva fatto già per due volte.
Esitante, affascinato, timoroso, spinsi i riluttanti cavalli nella direzione dell’apparizione. Mentre mi avvicinavo Stefan svaniva, solo per riapparire un po’ più distante, quasi nascosto dalle ombre degli alti pini al bordo della foresta.
Spinsi oltre i cavalli. Di nuovo Stefan svanì, poi riapparve, questa volta dentro la foresta, e mi fece cenno di entrare.
Tirai un respiro e lo seguii; i cavalli si muovevano per tentativi, sbuffando la loro disapprovazione per la mia folle temerarietà. Il passaggio tra gli alberi era stretto, e i cespugli sfioravano i lati del calesse, rilasciando la fragranza dei sempreverdi.
Nell’istante in cui entrammo, il panico e il rimpianto mi afferrarono, poiché gli alberi erano così vicini e le foglie così fitte, che mi trovai a fissare nella più profonda oscurità; per contrasto, il poggio illuminato dalla luna era sembrato chiaro come il giorno. Soltanto l’odore di pino e lo sfiorare dei rami degli alberi tradivano il luogo in cui mi trovavo.
Senza vedere nulla, tirai le redini per arrestare i cavalli, e cercai di capire dove si trovassero i tronchi degli alberi in modo da poter guidare con sicurezza il calesse per uscire. Ma, nel mezzo dell’oscurità, la piccola forma di Stefan mi apparve di nuovo davanti, rilucendo della stessa interna radiosità della luna, illuminando il sentiero che portava fino a lui.
Ancora una volta lo seguii con il calesse ma, prima di arrivare nel luogo dove Stefan era apparso, mi accorsi che qualcosa si dibatteva nel sottobosco, con un basso ringhio, un movimento indistinto, e tirai immediatamente le redini per far girare i cavalli. Il calesse si voltò oscillando nella direzione opposta, con tale velocità che una ruota si sollevò dal terreno e io fui lì lì per perdere l’equilibrio e cadere… cosa che mi sarebbe stata fatale.
La foresta divenne scura come il carbone. Non riuscivo a vedere nulla, ma sentii la tensione nelle redini quando i cavalli si impennarono e udii i loro nitriti che sovrastavano il ringhiare dei lupi. Feci schioccare le redini, forte, ancora più forte, quasi alzandomi per la disperazione, ma i cavalli erano troppo terrorizzati per obbedire. I lupi saltavano, mordendo i musi dei cavalli; udii il chiudersi delle loro mascelle, il rumore sordo delle loro zampe sul terreno e mi rannicchiai quando uno balzò sul calesse, così vicino che ne sentii il respiro caldo contro il viso e udii il sibilo dell’aria quando i suoi denti si chiusero.
Questa scena orribile durò soltanto alcuni secondi ma sembrò un’eternità prima che trovassi la frusta e convincessi i cavalli che nitrivano a muoversi. Uscimmo rumorosamente dagli alberi nella luce ondeggiante della luna. Dapprima i lupi ci seguirono mordendo gli zoccoli degli animali terrorizzati, ma presto desistettero e, in un baleno, ritornarono nella foresta.