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Sia io che i cavalli tremammo senza controllo per tutto il tempo che impiegammo a ritornare a casa. Per qualche miracolo, nessuno degli animali era seriamente ferito ma, anche così, mi sentii terribilmente in colpa quando vidi i loro musi sanguinanti e, dato che lo stalliere era già addormentato, curai io le loro ferite, parlando loro con gentilezza per calmarli anche se, credo, ciò sia servito più a calmare i miei nervi che i loro. Promisi che non mi sarei mai più avventurato nella foresta senza il fucile di papà.

Non potei promettere che non ci sarei andato ancora. Stefan mi aspetta. Qualcosa di malvagio cerca di impedirmi di scoprire quello che lui voleva farmi trovare stanotte.

Ma ciò è irrazionale! Le apparizioni del mio defunto fratello non sono nient’altro che la conseguenza dello stress e dell’immaginazione. Eppure l’illusione è così forte che è difficile resistere…

Lo shock e il dolore mi hanno portato sull’orlo della follia? Mi sento come se stessi in bilico su un precipizio. Ho visto il mio defunto fratello materializzarsi davanti a me; ho visto Vlad inesplicabilmente ringiovanito. Ho sentito gli artigli della pazzia afferrarmi il cranio. Come posso essere certo di aver visto veramente Laszlo portare l’anello di Jeffries o di aver visto l’involto nel calesse o il sangue sulla sua manica? Come posso sapere per certo che lo stesso Jeffries sia esistito?

No. No. Non devo farmi prendere dal dubbio o diventerò matto. Stefan è un’allucinazione — convincente ma irreale — ma io so di avere visto Laszlo portare l’anello, e so che non ho frainteso la sua insolente e incriminante osservazione.

Prima di entrare in casa, ero riuscito a controllare il tremore e avevo raggiunto un certo grado di calma: una cosa buona, dato che Mary era ancora sveglia. Penso che sia preoccupata per me: ho cercato di nascondere lo shock degli ultimi giorni, ma sospetto di non averlo fatto bene. Quella piccola piega che le compare tra le sopracciglia quando è particolarmente preoccupata, è ricomparsa. Con delicatezza mi ha comunicato che Zsuzsanna sembra molto malata di qualche malattia sconosciuta e, sebbene sappia che era turbata, non ho potuto fare a meno di capire che mi stava nascondendo qualche altra cosa per timore di allarmarmi. Temo che sia molto infelice qui, o che sia successo qualcosa che la rattrista.

Mi ha anche fatto delle domande, chiedendo se ci fosse qualcosa che mi preoccupava. Ho cercato di rassicurarla dicendo che tutto andava bene, ma non penso che mi abbia creduto.

Ci siamo ritirati presto e non mi sono fermato, come è mio costume, a registrare i fatti del giorno nel mio diario; ero esausto per la tensione emotiva.

Per confortarmi, mentre giacevamo insieme a letto, Mary ha messo la mia mano sul suo ventre in modo che potessi sentire il bambino che si muoveva dentro di lei; quel precoce bricconcello scalciava così forte che entrambi ci siamo sentiti obbligati a dimenticare le nostre preoccupazioni e a ridere. Il mio riso è quasi sfociato in lacrime, sentendo risorgere l’amore e la gratitudine travolgenti che avevo provato per lei sul vagone letto mentre venivamo da Vienna, quando ero rimasto a guardare mia moglie che dormiva.

Mi sono addormentato con rapidità ma, dopo neppure un’ora, mi sono svegliato mentre sognavo Shepherd che alzava la sua testa coperta di sangue con gli occhi bianchi da lupo. Ho paura di ritornare a quel sogno, e così mi sono alzato per scrivere queste parole alla luce della lampada.

Oh, Mary! Caro figlio non nato! In che razza di manicomio vi ho portato?

Capitolo quinto

Il diario di Mary Windham Tsepesh

11 aprile. Mattina. L’altra notte ho dormito appena, sebbene abbia fatto finta di essere addormentata quando Arkady è ritornato. Ero troppo sconvolta per dare un senso a quello che avevo visto, così ho trascorso delle lunghe ore accanto a lui nel letto, in ascolto del suo respiro e pregando Dio che, quando mi fossi alzata al mattino, avrei aperto gli occhi per scoprire che ero stata la vittima di nient’altro che un incubo.

Questi giorni prego molto in segreto. Arkady conosce la mia fede in Dio (come ci sorridiamo l’un l’altro con tolleranza, ognuno compiaciuto del suo proprio credo, quando uno di noi dice qualcosa a proposito della religione). Non il Dio arcigno, adirato, della Chiesa d’Inghilterra, che condannerebbe mio marito all’inferno per la mancanza di fede. Il Dio che io prego è saggio, pieno d’amore, troppo divinamente intelligente per occuparsi delle sciocche regole, gelosie, e guerre degli esseri umani, o per essere tanto infastidito dal rifiuto di mio marito da volerlo dannare al tormento eterno.

Ma quel Dio sembra molto lontano da questo luogo. Sebbene non abbia mai creduto nel Demonio, nessun estraneo mancherebbe di sentire che qualche potere maligno impera qui. Di fatto, Dio sembra non udire più le mie preghiere. Mi sono svegliata con la dolorosa consapevolezza che quello che avevo visto non era un sogno.

Non lo era affatto: le prove di ciò di cui sono stata testimone aumentano. Prego che quello che ho saputo oggi sia falso, ma il mio cuore e la mia mente sono divisi. La mia mente sa che è follia, e che è completamente falso; il mio cuore che è vero, ma io non posso turbare Arkady nel suo periodo di lutto con delle cose tanto terribili e fantastiche finché io stessa non ne sono certa.

Ieri, quando Zsuzsanna di nuovo non è scesa a colazione, le ho fatto un’altra visita in camera. Prima che potessi bussare, Dunya ha aperto la porta ed è uscita fuori in tutta fretta con un vassoio pieno di piatti, e questa volta non ha chinato la testa come è sua abitudine. Questa volta ha incontrato il mio sguardo, e il suo era così chiaramente terrorizzato e disperato che le ho chiesto in tedesco:

«Dunya! C’è qualcosa che non va?».

Al di sotto delle sue sopracciglia rossicce corrugate, gli occhi tradivano una tale angoscia che, quando mi ha fatto segno di stare zitta e con la testa di allontanarmi nel corridoio, ho obbedito senza fare domande. Con una mano ha tenuto il vassoio in equilibrio, e con l’altra ha chiuso piano la porta dietro di sé, poi si è avviata lungo il corridoio per parecchi passi prima di fermarsi e di voltarsi per essere certa che la seguissi.

Finalmente, si è fermata e mi ha fronteggiato poi, chinandosi in avanti sul vassoio, ha bisbigliato con voce rauca:

«L’ha fatto! Ha rotto lo Schwur.

«Non capisco», ho detto; non riconoscevo la parola. «Chi ha fatto questo?»

«Vlad», ha risposto, guardandosi intorno con timore. Se non avesse tenuto in mano il vassoio, senza dubbio si sarebbe segnata con la croce. «La domnisoara, la signorina, sta molto male. Malissimo!».

«Zsuzsanna?». Mi voltai a gettare un’occhiata verso la porta della camera. «È malata?».

Dunya assentì con vigore.

«Sta malissimo», ribadì.

In quel momento ero ancora indecisa riguardo alla spiegazione di ciò che avevo visto la notte precedente; mi trastullavo con l’idea che la mia mente avesse creato una metafora visiva. Dopotutto, la seduzione da parte di Vlad della sua stessa nipote e i modi inclini al flirt nei miei confronti, lo indicavano con chiarezza come un predatore. Così arrossii nel pensare che Dunya sapeva delle visite notturne di Vlad, e mi allarmai per le conseguenti condizioni nervose di Zsuzsanna che, quella mattina, erano apparentemente peggiori. Presto la notizia si sarebbe sparsa per la casa e poi per il villaggio.

«Le devo parlare immediatamente», dissi e mi diressi verso la porta.

Mentre così tacevo, Dunya mi sibilò dietro:

«Signora Tsepesh! Doamna! Dovete crederlo! Lui l’ha morsa. Vostro marito so che non lo farà, ma qualcuno qui deve crederci e aiutarla!».