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Mi gelai all’istante, poi mi voltai con lentezza per guardarla; lei poggiò il vassoio con un rumore di piatti, si fece la croce, e poi venne rapidamente verso di me, con dei modi così supplichevoli che sulle prime pensai che si sarebbe gettata ai miei piedi.

«Che cosa vuoi dire?», domandai piano affinché Zsuzsanna non sentisse. «Che cosa vuoi dire col fatto che lui l’ha morsa?».

Lei indicò subito il suo collo, proprio sopra la clavicola.

«Qui», disse. «Lui l’ha morsa qui».

Fu come se avessi trascorso tutta la mia vita in una stanza scura e, per la prima volta, qualcuno fosse entrato e avesse acceso una lampada. Mi irrigidii mentre pensavo alle parole scherzose del signor Jeffries:

«Un Vampiro, signora… e le anime degli innocenti sono il prezzo…».

«Strigoi», bisbigliai senza rendermene conto, finché la parola non mi uscì dalle labbra. Dunya annuì, disperatamente grata di essere stata finalmente capita.

«Strigoi, sì. Sì! Noi dobbiamo aiutarla!».

Non sono sicura di quello che credetti in quel momento. So soltanto che, mentre giravo la maniglia della porta, il cuore mi batteva forte per il terrore di quello che avrei trovato.

Un’atmosfera talmente sinistra aleggiava nella stanza che un presentimento negativo mi catturò mentre varcavo la soglia. L’aria sembrava pesante, gelida, soffocante come l’aria all’interno della tomba di famiglia durante il funerale di Petra. Mi immaginai di sentire un lieve odore di decomposizione. Forse l’atmosfera triste era creata dall’immaginazione e da un senso di repulsione per il fatto che sapevo che Vlad era stato lì soltanto qualche ora prima.

Zsuzsanna giaceva con i suoi capelli scuri sparsi sul cuscino. Brutus sedeva sul pavimento con la grande testa quadrata che riposava sul bordo del letto, accanto al cuscino, fissando il viso della sua padrona con un’espressione preoccupata e attenta. Quando entrai, voltò il muso corrucciato e dolente verso di me e piagnucolò piano, come per supplicare aiuto.

Alla vista di Zsuzsanna, alzai le mani alle labbra per reprimere un’espressione di orrore.

Assomigliava a un cadavere vivente: era pallida come i cuscini o la camicia da notte. Gli occhi avevano delle ombre di un viola scuro sopra e sotto; la pelle, non più morbida ma di un grigiastro privo di vita, era tirata, accentuando gli zigomi prominenti, il naso aguzzo e stretto, e gli occhi neri, enormi sotto i segni delle sopracciglia nerissime. Gli alti zigomi scolpiti e il taglio leggermente all’insù dei suoi occhi le davano un’apparenza stranamente felina e il pallore estremo di una strana e deperita bellezza.

Il suo volto aveva l’espressione tirata e cerea dei morti. Soltanto gli occhi sembravano vivi, lucenti, liquidi, pieni di una particolare eccitazione. Non sedeva propriamente quanto piuttosto era adagiata contro tre cuscini, respirando rapidamente e brevemente mentre lottava per scrivere su un diario appoggiato su un piccolo vassoio. Lo sforzo sembrava quasi troppo grande per lei.

Il mio apparire la spaventò. Con una rapidità che chiaramente la stancò, voltò il piccolo quaderno (sebbene non prima che vedessi che era stato scritto in inglese, presumibilmente per renderlo inintellegibile a domestici curiosi). Mi sorrise mostrando per un attimo i denti; le sue gengive grige si erano ritirate, facendo apparire i denti lunghi in modo anormale.

Ricambiai il sorriso, cercando di nascondere l’orrore poiché, guardandola, non riuscivo a pensare a nient’altro che a un cranio sogghignante. Ero sgomenta dal vedere che si era ammalata tanto rapidamente; il giorno prima mi era sembrata leggermente indebolita e stanca, ma nulla di tutto ciò… così vicino alla morte.

«Zsuzsanna!», esclamai. «Mia povera cara, che cosa è accaduto?».

Lei non si sollevò; non poteva, ma lottò per inalare abbastanza fiato da bisbigliare:

«Non lo so. Mi sento così debole… e la schiena mi duole terribilmente». La indicò debolmente con una mano e mi sembrò — è impossibile, naturalmente — che le sue spalle fossero quasi alla stessa altezza, mentre prima una era stata alcuni pollici più alta dell’altra. «Ma va tutto bene, Mary. Non è niente…».

Sorrise ancora, e gli occhi le brillavano di una beata follia.

«Non parlare», ordinai. «Sei troppo debole».

Mi voltai quindi verso Dunya che mi aveva seguito entrando e stava a guardare con un’aria di convinzione piena d’orrore, le mani sottili strette insieme all’altezza della vita, come se stesse pregando in segreto.

«Dunya», dissi, «manda uno dei domestici a prendere un dottore».

«Non ho bisogno di un dottore», bisbigliò Zsuzsanna, ma noi non prestammo alcuna attenzione a una dichiarazione tanto ridicola.

«Il dottore più vicino si trova a Bistritsa», rispose Dunya. «Se verrà immediatamente, arriverà qui stanotte, ma non è molto bravo. Il migliore si trova a Cluj, ma è troppo lontano per essere d’aiuto». Si fermò, abbassò la voce, e disse con grande convinzione: «Io so che cosa fare per aiutarla».

Aggrottai la fronte, preoccupata che dicesse qualcosa che potesse dispiacere a Zsuzsanna. Non volevo parlare di Vlad, della superstizione, o della cosa impossibile che avevo visto, di fronte a Zsuzsanna, che era già predisposta alle fantasie.

«Allora, dì a uno degli uomini di andare a prendere il dottore a Bistritz», le ordinai.

Lei annuì, fermandosi per lanciare un ultimo sguardo muto a Zsuzsanna, e nei suoi giovani occhi intelligenti vidi la rabbia, la paura e l’odio, lo sguardo di una donna che era stata violata e che non avrebbe mai perdonato.

Se ne andò e io sedetti sul bordo del letto, facendo attenzione a non urtare il vassoio per scrivere con sopra la penna e la bottiglia d’inchiostro. Il povero Bruto mi si avvicinò, ed io accarezzai la sua grande, calda e fidata testa, ma la pelle aggrottata sulla sua fronte turbata non si rilassò mai. Zsuzsanna non si sollevò a sedere ma mosse con rapidità la mano per far scivolare più lontano il diario voltato, oltre le coperte, come se temesse che potessi prenderlo e leggerlo.

Mi sarebbe piaciuto. Ero disperatamente curiosa di sapere cosa dicesse.

Con delicatezza le poggiai una mano su un braccio e l’altra sulla fronte. Non era affatto calda, cosa che mi sorprese, dato che mi aspettavo che i suoi occhi luccicanti fossero dovuti alla febbre. Invece era piuttosto fresca, e pensai, senza volere, alla stretta gelida di Vlad al pomana. Lei si ritrasse leggermente al mio tocco, sorridendo ancora debolmente, ma chiaramente ansiosa di disfarsi di me.

«Non ho bisogno di un dottore», sussurrò ancora. «Ho soltanto bisogno di riposare e stare sola».

«Sciocchezze!», dissi con fermezza. «Zsuzsanna, tu sei malata. Hai bisogno di cure». Pensai al vassoio che Dunya stava trasportando e mi accorsi, ripensandoci, che il cibo non era stato toccato. «Hai mangiato qualcosa?».

Scosse la testa, lasciandola ciondolare debolmente da un lato.

«Non ci riesco. Mi sembra un tale sforzo…».

In risposta, lanciai uno sguardo all’occorrente per scrivere.

«Ti porterò io stessa qualcosa dalla cucina. Un po’ di brodo forse, qualcosa che vada giù facilmente».

Cominciai ad alzarmi.

Mentre così facevo, Zsuzsanna portò distrattamente una mano al colletto della camicia da notte e tirò il nastro, allentandolo un po’ e toccando la pelle con la punta delle dita. La sottile stoffa di cotone bianco si aprì, permettendomi di vedere per un attimo un piccolo segno rosso sul collo, proprio sopra la clavicola.

«Mia cara, ti sei graffiata», dissi e, senza pensare, tirai via con delicatezza la stoffa per esaminare la ferita. La mia seconda impressione, nell’esaminare la ferita più chiaramente, fu che si fosse punta per caso la pelle con una spilla.