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C’erano due segni, non uno, ambedue piccoli, di un rosso scuro e perfettamente rotondi, con dei minuscoli centri bianchi nei punti esatti in cui la pelle era stata pizzicata. Proprio sotto una delle ferite, una goccia di sangue nero essiccato aveva formato la crosta.

La mia terza impressione consistette di un ricordo visivo e uditivo: Vlad, alla finestra della camera da letto di Zsuzsanna, che si chinava per abbracciarla e Dunya che diceva: «Lui l’ha morsa…».

Naturalmente, era ridicolo e impossibile. La mia mente se la rideva di tali ragionamenti e scartava subito la possibilità, ma ritirai la mano più rapidamente che potei come se avessi scoperto un serpente arrotolato. Mentre sedevo a fissare la ferita, il mio cuore cominciò a battere forte, e un senso di indicibile terrore mi sopraffece. Il bambino nel mio grembo fece un rapido e violento movimento.

Un animale, mi dissi. I segni dovevano essere stati fatti da un animale. Forse Bruto l’aveva graffiata… ma no, quelli erano morsi, e non potevo credere che la sua gentile e devota creatura l’avesse morsa. Inoltre, i buchi non corrispondevano alla dimensione e alla forma della bocca di un cane, né corrispondevano a quelle di qualsiasi animale che mi fosse familiare.

Ma erano delle dimensioni e alla distanza esatta per provenire da una bocca umana… o inumana…

Il mio sgomento dovette essere evidente. Zsuzsanna abbassò le sue pesanti palpebre con le ciglia nere come il carbone, e mi lanciò uno sguardo di traverso. Le dita ritornarono alla ferita, lo sguardo si fissò davanti a sé, e la sua espressione…

La sua espressione, mentre palpava i segni, era la vista che turbava più profondamente di qualsiasi altra cosa. Le sue labbra senza colore si aprirono, e il petto cominciò a sollevarsi mentre il respiro diveniva più rapido; gli occhi si spalancarono con uno sguardo di pura meraviglia, seguita dalla gioia, poi si strinsero ancora con velata sensualità. Abbassò la mano, languidamente, con voluttà, lasciando che le dita seguissero la curva di un seno e rimase assorta, a quella rivelazione, in una sorta di privato rapimento, come se io non fossi presente.

Pensai: È pazza, ma sicuramente non è la sola. Vlad è forse più sano? Lo sono io, a pensare che le vecchie leggende e superstizioni siano vere?

Mi gettò un altro sguardo di traverso da sotto le lunghe e folte ciglia, e le labbra le si curvarono in una timida smorfia che mi fece pensare al suo prozio al pomana, e al lupo alla mia finestra.

«È soltanto una piccola puntura di spillo, Mary. Non devi preoccuparti così».

«Naturalmente», balbettai, e mi raddrizzai mormorando: «Permetti, allora, che vada a prendere qualcosa dalla cucina. Hai bisogno di mangiare».

E me ne andai, desiderosa di liberarmi dall’atmosfera soffocante, velenosa, della stanza. Varcai la soglia, chiusi la porta dietro di me, e respirai profondamente l’aria più pura del corridoio.

Mentre stavo lì, tremante e confusa, con la testa china e la mano contro il muro per sostenermi, sentii un movimento alla fine del corridoio. Guardai, e vidi Dunya.

«Ho mandato Bogdan a prendere il dottore», disse.

I suoi occhi avevano un accenno di paura, ma quell’emozione era eclissata da un’altra più intensa: la determinazione, che era tradita dalla fermezza della sua mascella quadrata e dalla sua posizione eretta. Era una ragazza minuscola, più bassa di me di tutta la testa, che nondimeno riusciva a sembrare alta. Le sue mani erano serrate a pugno. In quel momento, la sua inferiorità culturale era superata dalla sua naturale testardaggine, e io fui confortata dalla forza che vidi nella sua espressione.

Mi raddrizzai e mi forzai di far cessare il mio sciocco tremore. Non c’è niente che odio più della debolezza; se fossi stata debole quando mia madre e mio padre morirono, non sarei sopravvissuta. Dunya ed io ci scambiammo uno sguardo triste.

«Le ho visto il collo», dissi.

Lei annuì, comprendendo perfettamente.

«Stamattina ho trovato Bruto di nuovo in cucina. L’ho liberato in modo che potesse fare il suo dovere». Tirò un respiro, poi disse in fretta: «Ha rotto lo Schwur».

Sembrava considerare quelle parole come una spiegazione. Dapprima rimasi confusa, pensando che si riferisse al cane, poi una misteriosa certezza mi invase e seppi, dal modo furtivo in cui abbassava le palpebre e la voce, e dal modo in cui lanciava occhiate alle spalle con la stessa timorosa espressione, che si riferiva a Vlad.

«Non conosco questa parola», dissi, riconoscendola come una che aveva usato in precedenza.

«Schwur, Bund», Dunya sostenne il mio sguardo con il suo, cupo, fermo. Era chiaro che considerava la questione così importante da trascendere ogni maniera servile. «Lo ha rotto e, se non lo fermiamo, Zsuzsanna morirà».

«Allora dobbiamo fermarlo», dissi, non più sicura di cosa credere ma sapendo solo una cosa: che Vlad aveva fatto del male a Zsuzsanna e che non gli doveva essere permesso di farlo di nuovo. «Ma che cosa è lo Schwur

«È che lui non ci farà del male, purché noi gli obbediamo». Emise un rapido e turbato sospiro, mentre il suo sguardo vagava su un punto lontano, come se stesse osservando un oggetto che non riusciva a identificare. «Non capisco il motivo per cui ciò è accaduto. Lui è uno strigoi, ma si è sempre comportato con onore. Non ha mai fatto del male ai suoi, ma se l’ha morsa…». Guardò in su rapidamente, verso di me, e io vidi nuovamente la scintilla della paura nei suoi occhi.

«Nessuno di noi è al sicuro, doamna. Nemmeno voi e vostro marito».

Logicamente, non riuscivo a dare molto senso alle sue parole, e un centinaio di domande razionali affollavano la mia mente tutte insieme, ma furono annientate da una sola, irresistibile, divorante frase che mi invase la mente, l’anima e il cuore, e non li voleva lasciare: Mio figlio… Mio figlio… Mio figlio!

Il pensiero di quel mostro che poneva la sua mano sul mio bambino mi fece accapponare la pelle sulla nuca, sulle braccia, e fece sì che un brivido freddo e caldo percorresse, in profondità, tutta la lunghezza del mio corpo. Pensai che mi sarei accasciata a terra; non so come, riuscii a restare in piedi. In quel momento, mi permisi di entrare nel mondo magico e superstizioso di Dunya e vidi tutto molto chiaramente, fin troppo bene.

Seppi, allora, perché aveva morso sua nipote: perché voleva andarsene. L’avevo capito al pomana, nella momentanea furia rossa dei suoi occhi, quando Zsuzsanna aveva gridato che non doveva andare in Inghilterra. Vlad non avrebbe permesso a nessuno, nemmeno a un parente amato, di interferire con la sua volontà.

Purché noi obbediamo…

Cominciai a esprimere i miei pensieri ad alta voce.

«Stai dicendo che Zsuzsanna morirà se non lo fermiamo».

«Morirà», ripeté Dunya, «e lei stessa diventerà uno strigoi. Avete visto, Doamna? Sta già cominciando a cambiare, e la sua schiena sta già cominciando a raddrizzarsi, ma ciò non è mai stato permesso: non ci sono altri strigoi oltre lui, per il bene della gente».

Mi portai una mano alla fronte, ricordando le spalle ormai alla stessa altezza di Zsuzsanna, cercando di calmare i miei pensieri febbrili.

«Che possiamo fare?»

«Permettetemi di aiutarvi, doamna. La sua stanza dev’essere resa sicura in modo che lui non entri. La notte scorsa ha messo il cane in cucina; dice che la disturba con il suo abbaiare».

«Allora, dobbiamo fare in modo che stanotte dorma con lei».

«Sì», disse Dunya. «E ci sono altre cose per impedire che lo strigoi entri nella sua stanza».

«Che cosa?».