Ripresi un po’ del mio antico senso pratico; qualunque cosa Dunya facesse, avrebbe dovuto essere talmente scaltra che mio marito non avrebbe potuto scoprirla e irritarsi. Sapevo di essere terribilmente spaventata, ma sapevo anche che non ero ancora certa in che cosa credere, e non volevo fare nulla che potesse accrescere l’infelicità di Arkady.
«Il Knablauch», disse. «Lo metterò vicino alla finestra, poi il crocifisso intorno al collo, e bisognerà fare in modo che il cane dorma con lei. È tutto… tutto quello che possiamo fare ora. Sarà abbastanza per ora, purché viva. Ma dovete sapere, doamna che, se mai in questi anni a venire si ammalerà e morirà…».
S’interruppe, incerta se dirmi quello che sentiva come ovvio, ma io non continuai e la guardai, aggrottando la fronte, perplessa. Infine, dopo un lungo silenzio, domandai:
«Che succede, se si ammala e muore?»
«Diventerà uno strigoi, come lui. Ma c’è qualcosa che lo può evitare e risparmiarle la vita».
Di nuovo fece silenzio e io la incitai:
«E che cos’è?»
«Ucciderla, doamna, con il palo e il coltello. È l’unico modo».
Non so cosa dire, cosa pensare, cosa sentire. Alle volte, rido di me stessa per aver ceduto alle ridicole richieste di Dunya e penso: ho avuto un brutto incubo riguardo a Vlad perché sono turbata per aver scoperto la sua relazione con Zsuzsanna. È solo questo, la sensibilità della mia mente alle tetre superstizioni dei contadini, la fatica del viaggio, e la morte del padre di Arkady. Gli uomini non si trasformano in lupi, e Zsuzsanna si è solo punta accidentalmente con uno spillo, proprio come ha detto.
Altre volte penso: so cosa ho visto fuori dalla finestra di Zsuzsanna; ero sveglia come lo sono ora. Ricordo il richiamo ipnotico degli occhi di Vlad e la repulsione che ho provato. Ricordo il tocco gelido della sua lingua sulla mia pelle.
Nessuno spillo, nessuna spilla, nessun cane fa dei segni come quelli.
Quando è venuto il dottore, ho pensato: “Ecco un uomo istruito. Lui spiegherà i segni, spiegherà l’improvvisa debolezza di Zsuzsanna, e smaschererà le mie preoccupazioni per quelle assurdità che sono”.
L’ho accompagnato fino alla camera da letto e sono rimasta per la visita. Era di mezz’età, borghese, apparentemente intelligente e razionale. Ma, nel momento in cui lo ricevetti in casa, lo vidi a disagio e, quando lo condussi nella camera di Zsuzsanna e gli posi delle domande sui segni alla gola, quel disagio si trasformò in paura. Lasciò delle prescrizioni per la sua dieta e per darle da bere una medicina che la facesse dormire ma, quando gli posi direttamente delle domande nel corridoio, fu evasivo riguardo alla causa della malattia e non volle incontrare il mio sguardo.
Almeno non si è fatto il segno della croce come i domestici.
Non mi sembra di far male lasciando che Dunya faccia a modo suo, purché Arkady non lo sappia.
Dopo che uscì per andare al castello e che il dottore ebbe fatto la sua visita, Dunya ed io ci siamo messe al lavoro. Il povero Bruto guardava, con le robuste mascelle poggiate sulle zampe, mentre circondavamo la finestra di Zsuzsanna con corone di aglio — il Knoblauch — e intanto lei giaceva, grigia e immobile come un cadavere grazie al sedativo del dottore. Adesso l’abbaiare non la disturberà.
Quando finimmo il nostro strano lavoro e ci muovemmo verso il letto dove giaceva la sua padrona per legarle il crocifisso attorno alla gola ferita, Bruto non ci minacciò, ma batté la coda in segno di approvazione.
Ho chiesto a Dunya se desiderava restare nella casa, dal momento che era già tardi. Lei ha detto che non poteva, che l’anziano padre si sarebbe terribilmente preoccupato, così l’ho fatta accompagnare a casa da uno degli uomini. Ha promesso di restare qui domani notte per fare, con Bruto, la guardia a Zsuzsanna. Per qualche ragione, la sua presenza è per me di enorme conforto. Dopo che se ne è andata, mi sono di nuovo spaventata.
Ma, quando Arkady è tornato a casa, ho dimenticato tutto quello che mi riguardava, poiché lui stava chiaramente cercando di nascondere il suo terribile stato nervoso. Infine gli ho chiesto direttamente che cosa lo preoccupasse. Ha detto che non era nulla, che, nel ritornare a casa, un lupo si era avvicinato molto ai cavalli, spaventando lui e loro, ma rassicurandomi che i lupi solitari erano paurosi e non avrebbero attaccato senza la protezione del branco.
Non gli ho creduto del tutto. Penso che sia qualcosa che abbia a che vedere con Vlad.
Altre volte, penso: “È solo il dolore. Ha perso suo padre soltanto di recente; dagli il tempo di riprendersi, non gli fare pressioni’’. Non gli posso dire: “Le leggende sono tutte vere; tuo zio è un Vampiro, e presto lo sarà anche tua sorella se non lo ammazziamo…”.
Ieri sera, ho trovato un grosso dizionario tedesco-inglese nella biblioteca al piano di sopra e, seduta in una poltrona di due secoli più vecchia di me, con il grande libro aperto in grembo, ho trovato le parole: Schwur, Bund.
Patto.
Di quale empia alleanza si tratta?
Il diario di Arkady Tsepesh
11 aprile. È passato un giorno e ancora non vi è alcun segno di Jeffries.
Non dormo molto. Quando lo faccio, ritorno nei miei sogni a quel momento di vivo panico nella foresta e mi trovo intrappolato in un’oscurità divorante, condannato a provare per sempre la puntura dei rami di pino che mi battono contro il viso, il calore del respiro dei lupi, il rumore secco di mascelle affamate in mezzo ai nitriti dei cavalli. Tiro le redini con tutta la mia forza, ma inutilmente. Le ruote del calesse girano in un cerchio senza fine, e i rami continuano a colpirmi sul viso; i cavalli non cessano di nitrire, né i lupi di attaccare ringhiando. So che non troverò mai l’uscita da quella foresta senza fine.
Mai.
Nei miei sogni, vedo anche Jeffries, colto nel momento in cui guarda, fuori della finestra del castello che dà a sud da un’altezza vertiginosa, verso la grande estensione della foresta sottostante. Vedo l’avvampare della paura sul suo viso, sul roseo cuoio capelluto dove i capelli di un biondo latteo si dividono, sulla sua fronte mentre si asciuga con delicatezza le perle di sudore con il fazzoletto con il monogramma. Vedo il terrore nei suoi occhi… e poi lo vedo cadere.
Cadere attraverso la finestra aperta, come fosse in attesa. Lo seguo attraverso quella finestra, osservando al sicuro come un uccello che si libra in volo mentre lui precipita verso il basso, con le braccia e le gambe che si agitano convulsamente, fendendo la fredda aria montana con lo stesso acuto sibilo dei denti dei lupi.
Lotta così freneticamente che, mentre cade, si volta verso l’alto, e riesco a vedere il terrore nei suoi grandi occhi chiari, nei suoi lineamenti contorti, nella sua bocca, aperta e congelata in un muto grido.
Giù giù, giù… Sempre in silenzio, tranne che per il suono sibilante delle sue membra che si contorcono, e un debole e lontano ringhiare che viene da qualche parte al di fuori del sogno.
Una discesa così lunga…
Finalmente raggiunge gli alberi e qui c’è la beffa. La sua caduta non è interrotta da essi, né è interrotta con violenza dall’impatto di rami e cespugli, fino a cadere sul terreno ricoperto di aghi. No: quando raggiunge le cime degli alberi più alti, i loro rami dalle punte sottili lo trapassano come dei pali appuntiti attraversandogli il torace, il collo e le braccia, i polpacci e le cosce.
Rimane impalato, lacerato, oscillando al vento che spira tra le cime degli alberi, con dei rami insanguinati di pino che fuoriescono dal suo corpo come punte di frecce primitive, un moderno San Sebastiano.
E poi sorride, i muscoli del collo che si tirano intorno al ramo che li buca, muovendosi sotto il sangue, e mi guarda con l’identica espressione deliziosamente curiosa che aveva mentre guardava il ritratto del mio antenato, e dice: