Non mi informai di mio padre, né lui mi fornì volontariamente delle informazioni; meglio sapere le eventuali cattive notizie dalla famiglia piuttosto che da quel silenzioso e spiacevole sconosciuto.
Ben presto i nostri bauli furono caricati, e noi ci sistemammo ben coperti nel calesse, poiché la notte era diventata fredda: quindi Mary ed io ci avviammo in un silenzio assonnato verso casa. Questa volta non sonnecchiai, ma usai il tempo per riflettere sull’incubo.
Avesse voluto il Cielo che fosse stato solo un sogno…
Infatti era un ricordo nel sonno, provocato, forse, dal familiare odore dei pini. Quel fatto terribile era veramente accaduto quando avevo cinque anni, sebbene, in realtà, non fossi andato tanto vicino da esaminare il mio povero fratello sanguinante. A dire il vero, ero svenuto nell’istante in cui mio padre era caduto in ginocchio accanto al figlio moribondo e aveva urlato la sua angoscia.
Anni dopo, quando mio padre si fu in parte ripreso dalla tragedia della morte di Stefan (e dal senso di colpa: oh, come si incolpava per essersi fidato dell’animale!), mi parlò di ciò che aveva potuto causare l’improvvisa malvagità di Shepherd.
Stefan, aveva detto mio padre, era inciampato e aveva battuto la testa, che aveva sanguinato a profusione. Shepherd era sempre stato un cane buono e fedele, ma l’odore del sangue aveva causato un ritorno ai suoi istinti di predatore, quelli del lupo. Non si poteva incolpare il cane, insisteva mio padre, piuttosto, era lui stesso ad esserne responsabile, per aver creduto che l’animale potesse vincere la sua seconda natura.
Il ricordo della morte di Stefan fece sì che il mio senso di terrore aumentasse, finché mi convinsi che la peggiore delle notizie ci attendeva alla fine del nostro viaggio. Ahimè, la mia premonizione si dimostrò vera.
Dopo un interminabile tragitto su tortuose strade di sabbia, arrivammo alla proprietà di mio padre che eravamo prossimi alla mezzanotte, e insieme — il cocchiere ed io — aiutammo Mary a scendere dal calesse (lei sembrava piuttosto sconcertata dalla dimensione e dalla grandiosità della residenza, molto diversa dal nostro umile appartamento a Londra. Suppongo di esser stato vago riguardo alla consistenza della nostra ricchezza familiare. Che cosa avrebbe detto l’indomani, quando il sole fosse sorto e avesse visto il magnifico castello, in confronto al quale noi siamo così piccoli?).
Devo ammettere che mi spaventai quando un enorme San Bernardo scese — saltando e abbaiando — i gradini di pietra per venirci a salutare, ma dimenticai il cane quando il mio defunto fratello apparve all’entrata.
Stefan stava lì fermo, con un ciuffo di neri capelli arruffati contro il trasparente alabastro della fronte, un piccolo e solenne bambino di sei anni, nonostante ne fossero trascorsi venti, e alzò la mano con lentezza, in cenno di saluto. Battei le palpebre, ma il suo spettro rimase, e soltanto allora notai che il pallido palmo sollevato e la stoffa bianca della sua camicia a brandelli erano macchiati di un rosso scuro — quasi nero nella luce lunare che brillava debolmente — e compresi che la sua mano non era alzata in segno di saluto, ma per mostrare il sangue.
Mentre guardavo, allungò il braccio e indicò, con le piccole dita gocciolanti di sangue e rugiada, qualche cosa dietro di noi. Mi guardai furtivamente alle spalle, sapendo che Mary e il cocchiere non stavano condividendo quella visione, e non vidi nulla se non un’infinita foresta di scuri sempreverdi.
Mi voltai per vedere Stefan che scendeva i gradini venendo nella nostra direzione, mentre indicava, silenziosamente ma chiaramente, la foresta.
All’improvviso fui preso dalla vertigine, e gridai e chiusi gli occhi. Nel mio paese ci sono leggende che parlano del moroi… il morto senza pace, condannato da un segreto peccato o da un tesoro nascosto a vagare sulla terra, finché la verità non sarà rivelata.
Sapevo che il giovane cuore coraggioso di Stefan non aveva segreti nascosti, né riuscivo a immaginare che avesse posseduto alcunché di simile a un tesoro; sapevo che quell’apparizione era provocata da null’altro che la fatica del viaggio e dal timore delle notizie future. Io sono un uomo moderno che ripone la sua speranza nella scienza piuttosto che in Dio o nel Demonio.
Aprii gli occhi e vidi, non Stefan, ma Zsuzsanna sull’entrata.
Alla sua vista, il mio cuore si strinse per il dolore; accanto a me, Mary sollevò la mano guantata alla bocca ed emise un profondo lamento di angoscia. Ambedue capimmo immediatamente che mio padre era morto. Zsuzsanna era vestita a lutto, e i suoi occhi erano arrossati e gonfi. Sebbene cercasse di sorridere, la sua momentanea gioia al vederci era cancellata da un’aria di dolore.
Ah, dolce sorella, come sei invecchiata nei pochi e brevi anni che sono stato via…!
Aveva soltanto due anni più di me, ma sembrava che fossero quindici. I suoi capelli — neri come il carbone, come i miei e quelli di Stefan — erano striati di argento alle tempie e in cima alla testa, e il suo viso era segnato ed emaciato. Seppi che il dolore l’aveva duramente provata, e mi sentii colpevole per il fatto che aveva dovuto sopportarlo da sola.
Immediatamente corsi verso di lei, passando sul luogo esatto dove era apparso il fantasma di Stefan soltanto qualche secondo prima. Lei riuscì a scendere con fatica un gradino prima che l’afferrassi e l’abbracciassi sulle scale di pietra. Il suo tentativo di allegria si sgretolò completamente, e singhiozzammo senza ritegno l’uno nelle braccia dell’altra.
«Kasha», ripeteva. «Oh, Kasha…».
Il suono del nomignolo che aveva trovato per me mi straziò il cuore (era uno scherzo tra noi due; kasha è un tipo di pappa d’avena che io detestavo moltissimo e che veniva d’abitudine servita a colazione dal nostro vecchio cuoco russo. Da ragazzo, avevo escogitato ogni tipo di metodo ingegnoso per disfarmi di essa e ingannare il cuoco, facendogli credere che l’avevo mangiata).
Zsuzsanna sembrava così leggera nelle mie braccia, così fragile, così esangue che, benché fossi affranto per mio padre, mi preoccupai per lei. Da quando era venuta al mondo con la spina dorsale e una gamba storte oltre a una costituzione fragile, non era mai stata robusta.
«Quando, Zsuzsa?», chiesi nella nostra lingua madre, senza nemmeno accorgermi che non stavo più parlando inglese, come se non fossi mai partito per Londra e non avessi mai dimenticato negli ultimi quattro anni di essere un Tsepesh.
«Questa sera. Proprio dopo il tramonto», rispose, ed io mi rammentai del sogno che avevo avuto nella carrozza. «A mezzogiorno ha perso conoscenza e non si è più risvegliato, ma prima mi ha dettato questo per te…».
Asciugandosi le lacrime con il fazzoletto, mi porse una lettera piegata, che feci scivolare nel mio gilet.
In quel momento, il San Bernardo trotterellò su per le scale per mettersi accanto alla sua padrona, ed io mi ritrassi involontariamente.
Zsuzsanna capì, naturalmente: aveva sette anni quando era avvenuto l’incidente a Stefan.
«Non temere», mi rassicurò, chinandosi ad accarezzare l’animale. «Bruto è di razza pura e molto gentile». (Bruto! Aveva qualche idea delle implicazioni di quel nome?) Quindi si raddrizzò e scese poco per volta i gradini in direzione di Mary, che era stata ad aspettare a breve distanza per rispettare la nostra intimità, e le disse in inglese: «Ma io sono stata maleducata. Qui c’è la mia amata cognata, che non ho mai visto. Benvenuta».
Dopo anni trascorsi a Londra, il suo accento mi sembrò piuttosto marcato; vidi che Mary ne restava leggermente sorpresa, poiché era abituata alla lettura della precisa e poetica prosa di Zsuzsanna e, chiaramente, supponeva che il suo inglese parlato fosse perfetto come quello scritto.
Nonostante le sue condizioni la rendessero goffa, mia moglie si mosse con molta grazia e agilità sulle scale e si affrettò verso mia sorella, in modo che questa non avrebbe dovuto affaticarsi nel camminare. Poi la baciò e disse: