«Vlad l’Impalatore. Vlad lo Tsepesh. Nato nel dicembre del 1431. Voi siete un Impalatore, non è così? Uno degli uomini-lupo? Siete ben sicuro di preferirlo a Dracul…?».
Mi sveglio con il cuore che batte forte fino a farmi venire la nausea, ricordando la chiara paura nei suoi occhi mentre guardava fuori della finestra nell’ala sud, e penso: Lui non aveva paura dell’altezza, ma del suo destino. Lo vide che lo attendeva lì.
Più ci rifletto, più comprendo che non posso andare dalle autorità di Bistritz senza altre prove. Non habemus corpus; non abbiamo un corpo, quindi il delitto non c’è. Vlad rifiuterà di sospettare Laszlo per cieca lealtà, e continuerà a insistere che Jeffries ha semplicemente scelto di scomparire, a meno che non ci sia una prova.
Così, questa mattina ho pulito la pistola di papà — un lucente revolver Colt d’acciaio, la più recente novità nelle armi da fuoco e mio ultimo dono a lui, spedito dall’Inghilterra — e l’ho messo nel calesse insieme a una lanterna.
Poi sono partito per il villaggio. Ho guidato lentamente i cavalli lungo il bosco, facendo di proposito una piccola deviazione indietro verso il castello, e ritornando nel luogo dove Stefan era apparso l’ultima volta, ma il suo fantasma non è riapparso.
Era mezzogiorno quando mi sono diretto verso il cimitero del villaggio, dove il figlio di Masika veniva seppellito. Ho legato i cavalli a un palo fuori alla chiesa e ho guardato da lontano la semplice cerimonia dei contadini.
C’era una triste bellezza nella sua semplicità. Sei rumini muscolosi portarono la bara di pino sulle spalle e la deposero accanto a una tomba scavata da poco, mentre tutte le donne cantavano i Bocete con alte voci tremanti. Non c’erano delle donne pagate per lamentarsi, né un’elegante tomba di marmo affollata di ombre ancestrali, né targhe d’oro; soltanto gente del paese, la famiglia, un profondo buco nella nera terra, e una lapide fatta di pietra che gli elementi avrebbero reso illeggibile nel corso di una generazione. Non c’era nemmeno un qualche senso di storia familiare; Masika Ivanovna, vestita di nero dalla testa ai piedi, era l’unica parente del giovane che partecipasse, l’unica a gettarsi sulla bara chiusa e a gemere.
Nello spazio di alcuni minuti, il piccolo gruppo di donne che le stavano attorno la tirarono via. in modo che il servizio funebre potesse cominciare. Il prete stava dietro la piccola lapide di pietra e recitò il Quinto Salmo, poi la liturgia, con un tono calmo, musicale; di tanto in tanto, i partecipanti rispondevano cantando.
Ben presto la bara fu calata nella buca in attesa e coperta con manciate di terra e singole rose selvatiche. Pensai al bel ramo di rose scarlatte, che emanavano un dolce profumo dalle loro ferite, mentre giacevano calpestate sul pavimento di marmo della tomba di papà.
Quando tutto fu finito, i presenti mi evitarono, segnandosi con la croce e facendo dei gesti particolari per scacciare il malocchio: una V formata dal primo dito e dal medio che mi puntavano contro. Una delle donne che aveva aiutato Masika Ivanovna, mi sibilò qualcosa mentre passava.
Io ero sgomento e confuso da quella reazione, ma fui sollevato quando Masika Ivanovna, con le guance rotonde arrossate e luccicanti di lacrime, si avvicinò e con calore mi afferrò le mani.
Ci abbracciammo come parenti da lungo tempo lontani. Ripensandoci, mi sembra strano e inappropriato ma, in quel momento, provai verso di lei un legame molto forte e teneramente sentito, forte come quello che avrei potuto sentire verso lo zio o Zsuzsanna.
Mentre teneva ancora la mia mano nelle sue, fece un passo indietro e osservò il mio viso con affettuosa malinconia, come potrebbe fare una madre.
«Arkady Petrovich! Che bello da parte tua venire! Come sono grata di poterti vedere un’altra volta!».
Pronunciò l’ultima frase con tale convinzione che io risposi:
«Avrai molte opportunità di vedermi ancora, al castello».
Le sue labbra si strinsero forte; scosse la testa e nei suoi occhi brillò lo stesso cupo dispiacere e timore che avevo visto proprio prima che la presenza di Laszlo la interrompesse nello studio di papà.
«No», disse a voce bassa. «Non ci ritornerò più».
«Sei sconvolta dal dolore, Masika Ivanovna. Tra una settimana, forse due, ti sentirai abbastanza forte da lavorare di nuovo. Inoltre, là, tu sei la mia unica vera amica».
Le lasciai le mani e tirai fuori dalla tasca il grosso crocifisso d’oro con la catena che avevo preso la notte precedente dalle camere degli ospiti. Lo premetti nel suo palmo; lei guardò in basso con sgomento.
«Jeffries non lo porterà più», spiegai e, dopo un attimo, aggiunsi a voce bassa: «È scomparso».
«Oh, Arkady!», gridò, così presa dall’angoscia che mi si rivolse come a un familiare. «Tu non capisci ancora, vero?». Immediatamente si guardò furtivamente alle spalle, verso le donne che l’attendevano a breve distanza. Sporgendosi verso di me, come se temesse che qualcun altro potesse sentire, bisbigliò: «Il mio destino non mi importa più. Ho perduto i due uomini che maggiormente amavo al mondo, e non mi importa se vivrò o morirò. Eppure, temo moltissimo per te, per tua moglie e per il bambino…».
Il mio cuore cominciò a battere più rapidamente al pensiero che qualcuno potesse credere che Mary fosse in pericolo.
«Che cos’è che temi, Masika? Che qualcuno ci faccia del male?».
Laszlo, mi dissi; lei sa che è un assassino. Ma le parole che seguirono servirono soltanto a rendermi perplesso.
«Non fisicamente, ma ci sono ferite peggiori… quelle inflitte all’anima». Si portò le mani al viso ed emise un debole, amaro singhiozzo. «La mia ha sopportato abbastanza. Voglio soltanto morire».
«Masika, non devi dire queste cose…».
Continuò come se non avessi mai parlato, allungando il braccio per toccarmi la guancia e mi guardò con gentile affetto materno.
«Tu sei come tuo padre quando era giovane, pieno di bontà e gentilezza. Ma può essere già troppo tardi per te… troppo tardi».
«Non capisco», risposi, ma lei m’interruppe con un bisbiglio rauco e veloce, come se temesse che potessi cercare di fermarla.
«Il Patto, Arkady Petrovich, il Patto! Vieni da me di giorno, quando lui dorme. Non è sicuro per noi parlare così all’aperto: ci sono troppe orecchie, troppe spie. Oggi non possiamo parlare; la mia casa sarà piena, ma vieni da me presto… tra un giorno o due. Dobbiamo parlare, e…», qui la sua voce si abbassò talmente che potevo a malapena sentire, «… c’è una lettera da parte di mio figlio che devi leggere. Lui sapeva che il suo momento era vicino, e così ti ha scritto. Ma per amor suo e mio, non parlarne a nessuno. Devi giurare di tenerlo segreto. Soltanto, vieni…!».
La sua fretta era impellente, ma io non riuscivo a dare un senso alle sue parole.
«Ma perché, Masika?»
«Perché…», cominciò, poi esitò per alcuni secondi, guardando intensamente il mio viso con occhi ansiosi, pieni di dolore, come se temesse di essere condannata. «Perché amavo tuo padre. Perché è tuo fratello che seppelliamo oggi».
Mi ritrassi, sopraffatto dalla sorpresa, incapace di rispondere mentre lei se ne andava rapidamente per unirsi al gruppo delle donne in attesa, le cui forme scure scomparivano veloci come merli che volavano bassi sull’erba che si risvegliava per la primavera.
Attesi finché l’ultimo dei partecipanti fu sparito, poi mi avvicinai alla tomba, dove i becchini stavano cominciando a coprire la bara calata nella fossa con palate di terra. La semplice lapide recitava: