Quando mi alzo, al mattino, lui dorme ancora, con la testa scura sul cuscino, il suo bel volto con gli occhi grandi, le nere sopracciglia marcate, e il dritto e stretto naso aquilino, che diventa ogni giorno leggermente più pallido. Ci sono linee e ombre che si addensano sotto quegli occhi. In una settimana è invecchiato di dieci anni. Non riesco a fare a meno di pensare a quanto assomigli a sua sorella, e a come Vlad risucchi le loro emozioni.
Mi sento sola a causa sua. Il marito che conoscevo sta cambiando in un lontano e malinconico estraneo. Mi preoccupo che questo Arkady possa rimanere anche dopo che il dolore per suo padre si sia dileguato.
Questa mattina si è alzato poco prima del pranzo e abbiamo condiviso un pasto in un silenzio quasi totale. Sembrava esausto, più emotivamente che fisicamente e, sebbene fosse distrattamente gentile verso di me secondo le sue abitudini, i suoi pensieri erano chiaramente altrove.
Qualcosa lo turbava, e così ero riluttante a disturbarlo ma, quando il pasto è finito, ho osato infine parlare. Il fatto che Zsuzsanna fosse seriamente malata non poteva più essergli tenuto nascosto; prima o poi lo avrebbe scoperto (anche se, attualmente, è stato troppo preoccupato per chiedere perché non si presenti più ai pasti). Come fratello, ha il diritto di sapere.
«Caro», ho detto, mentre eravamo seduti al grande tavolo da pranzo che un tempo aveva visto una grande famiglia e ora sembrava tristemente troppo vasto con soltanto noi due, «per favore, non ti allarmare, ma dovresti sapere che le condizioni di Zsuzsanna sono peggiorate e che è stata seriamente malata. Ieri sera siamo andati a prendere il dottore a Bistritz».
Aveva cominciato ad alzarsi. All’udire la notizia si fermò nel mezzo del movimento e restò così un istante aggrondandosi per l’enorme sforzo di portare la sua attenzione da quel punto infinitamente distante in cui era, al presente, e alle parole che avevo appena pronunciato. Per alcuni secondi i suoi occhi a mandorla rimasero velati, poi si aprirono quando, alla fine, prese atto delle mie osservazioni e le comprese. La linea tra le sopracciglia si approfondì, si allungò.
«Zsuzsanna è ammalata?»
«Sì», ammisi, facendo attenzione a mantenere il tono allegro e ottimistico. «Ma oggi sta molto meglio».
Il suo sguardo vagò incerto sopra di me, sopra il tavolo, la sala da pranzo, il piccolo raggio di sole che filtrava attraverso la lontana finestra.
«Oh», disse. «Bene, sono contento che stia meglio. Forse dovrei andare a farle visita».
«Penso che le farebbe piacere». Approvai con un piccolo sorriso d’incoraggiamento, da donna intrigante quale sono, compiaciuta nel sapere che le corone di aglio erano state rimosse con attenzione e nascoste nel ripostiglio. «Permetti che venga con te».
Mi alzai e passai il mio braccio intorno al suo prima che potesse alzarsi in piedi. Volevo essere certa che Zsuzsanna non dicesse nulla che potesse rattristarlo; suppongo temessi che aveva notato l’aglio e che avrebbe detto qualcosa o che avrebbe, tra le lacrime, confessato a Arkady di Vlad. Volevo che qualsiasi notizia scioccante gli fosse comunicata con delicatezza.
Entrammo nella stanza di Zsuzsanna, dove lei era seduta sul letto, a scrivere ancora in un diario che di nuovo si affrettò a chiudere prima che potessimo leggere. Strisce di sole entravano attraverso le persiane chiuse, illuminando la rientranza dove avevo visto abbracciarsi Vlad e Zsuzsanna, e il pannello della finestra era stato tirato su per lasciar entrare il piacevole tepore fuori stagione. La stanza sembrava gaia e piacevole, come se il sole lucente avesse sconfitto il male. Persino Bruto sembrava sollevato, e ci accolse agitando la coda e ciondolando la lingua. Io sentii, con imbarazzante disagio, un vago odore di aglio, ma Arkady sembrò ignorarlo del tutto.
Fortunatamente, Zsuzsanna non gli rivelò nulla, e fu dolce e sollecita verso suo fratello, rassicurandolo che non avrebbe dovuto neppure per un istante preoccuparsi per lei. Il crocefisso che Dunya le aveva legato intorno al collo era scivolato sotto la camicia da notte, e lei non ne fece parola con Arkady.
Tutto andò piuttosto bene finché, in seguito, quando lasciammo insieme la stanza di Zsuzsanna e ci dirigemmo verso la grande scala a chiocciola, Arkady si mise nella parte interna in modo che io potessi appoggiarmi con tutto il mio peso sulla lucida balaustra di legno.
Sottovoce, come se temesse che sua sorella o i domestici potessero udire, mi chiese:
«Che cos’ha detto il dottore? Sembra così pallida».
«Forse si tratta di un qualche tipo di anemia», risposi, e la mia voce era quasi un bisbiglio. Il mio battito cardiaco aumentò mentre lottavo per trovare le parole adatte a introdurre con delicatezza l’argomento che volevo da tanto tempo discutere con mio marito. «Ma temo che costribuisca alle sue condizioni una componente emotiva».
Invece di chiedere, lui fissò i suoi grandi occhi su di me e li tenne lì finché continuai, estremamente esitante:
«Io penso… credo che abbia a che fare con tuo zio, Vlad».
«Che significa?», chiese.
Il suo tono sembrò abbastanza neutrale per incoraggiarmi a procedere ma, a ripensarci, sento che avrei dovuto cogliere la sua sottile diffidenza.
«È turbata dal pensiero che Vlad vada in Inghilterra», disse e, nonostante la mia risolutezza, arrossii.
La linea tra le sue sopracciglia comparve di nuovo: un avviso di ciò che stava per arrivare.
«Ma non ha senso», disse, ancora sottovoce, preoccupandosi dei domestici. «Le ha spiegato molto chiaramente che non partirà senza di lei… che aspetteremo tutti finché starà bene. È triste per il fatto che lascia la casa?»
«Non esattamente…».
Esitai, niente affatto sicura che la discussione avrebbe dovuto continuare, ma Arkady era deciso a conoscere il problema. Un accenno di impazienza si insinuò nel suo tono.
«Bene. Allora, di che si tratta?»
«È… penso che abbia ancora paura che lui possa lasciarla qui».
Riuscivo a sentire il calore sulle mie guance e sul collo, ma la sua stessa impazienza mi risvegliò, e sentii che avevo tenuto per me la verità abbastanza a lungo, che era meglio dirla e farla finita.
«Lei è… Vlad è… Arkady, si amano».
Lui indietreggiò come se lo avessi colpito e si fermò a due gradini dalla fine della scala. Le labbra gli si aprirono e mi guardò fissamente con gli occhi spalancati per lo shock. Quando, finalmente, fu in grado di parlarmi, la sua voce era così bassa che potei a malapena udire:
«Co… cosa? Che vuoi dire?»
«L’ho visto nella camera di lei la notte tardi. Due volte. Io penso che il senso di colpa per la loro relazione sia almeno parzialmente responsabile per l’inspiegabile malattia».
Essendomi liberata della verità, mi sentii all’improvviso debole, malata. Le guance mi bruciavano, ma fu sulle sue che vidi improvvise e forti macchie di colore.
Completamente inebetito, si voltò verso il muro di pietra e mormorò:
«È impossibile. Impossibile».
Scesi goffamente gli ultimi due gradini e mi voltai a fissarlo.
«Mi si spezza il cuore a dirti questo. Tu sai che non direi tali orribili cose se non fossi convinta che fossero vere. Ma per amore di Zsuzsanna, io…».
Mentre parlavo, sollevò una mano alla tempia in un improvviso spasmo di dolore che mi fece accorrere verso di lui preoccupata. Si riprese bruscamente e si voltò verso di me in un repentino accesso di furia, chinandosi in avanti e traballando sull’orlo di un gradino tanto che temetti che avrebbe perso l’equilibrio e sarebbe caduto.
«Come osi?», gridò. «Non sei meglio dei contadini, che spargono malvage menzogne sullo zio! Non ti ha fatto nient’altro che bene: ti ha dato questa casa e questa ricchezza… e tu te la sei presa con lui! Sei un’ingrata, e lui è un santo! Un santo!».
«Non alzare la voce con me, signor Tsepesh» dissi, accalorandomi anch’io un po’. «Io non sono un’ingrata, e lui non è un santo».