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Le sue parole mi hanno ferito… e lasciata perplessa poiché avrei pensato che fosse più preoccupato dell’onore di sua sorella che di quello di suo zio.

Mentre parlavo, si precipitò giù per le scale, oltrepassandomi, agitando la mano per ottenere silenzio e scuotendo la testa per esprimere la sua rabbia.

«Ho udito abbastanza! Non ascolterò altre bugie!».

E se ne andò di furia. Ascoltai i suoi passi che si allontanavano, attutiti dapprima dal tappeto e poi risuonanti forte contro la fredda e insensibile pietra. Se avesse reagito come l’Arkady che avevo sempre conosciuto, gli sarei andata dietro e sarei stata certa che rapide scuse e riconciliazioni sarebbero seguite, ma quello era qualcuno il cui comportamento non sapevo più prevedere. Lo lasciai solo fino a che non avesse placato la sua rabbia.

Si rinchiuse in uno dei suoi studi e non ne uscì per circa un’ora, quando lasciò la casa senza parlare ad alcuno, e prese il calesse molto in anticipo rispetto al solito, suppongo per andare al castello. Non ho idea se pensi di parlare a Vlad di quello che ho detto.

Mi dispiace di aver sollevato la questione; è chiaro che il dolore di Arkady è ancora troppo fresco, troppo vivo. Come potrò mai parlargli, allora, di ciò che ho visto fuori della mia finestra… della terribile, fantastica visione nella quale ho visto Vlad diventare un lupo? Dei segni sul collo di Zsuzsanna, e del fatto che io sono pressoché convinta che lui è uno strigoi, abbastanza convinta da permettere il crocifisso e l’aglio?

Ho paura. Paura di Vlad, paura per Zsuzsanna. Paura per mio figlio che presto nascerà.

Soprattutto ho paura perché, da quando siamo arrivati, mio marito è cambiato lentamente in qualcuno che non conosco. Anch’io sto cambiando, da donna pratica in un’anima tremante, superstiziosa, specialmente quando Dunya parla della lenta metamorfosi di Zsuzsanna in uno strigoi.

Vlad è diventato un lupo. Che ne sarà di Arkady e me, quando le nostre trasformazioni saranno terminate?

Il diario di Zsuzsanna Tsepesh

13 aprile. La notte scorsa lui ha bussato ancora alla finestra. Ha bussato e io ero pronta per lui. Mi ero tolta il crocifisso dal collo e avevo rimosso l’aglio, nascondendolo nel ripostiglio come fanno Mary e Dunya ogni mattina: pensano di essere così furbe! E ho aperto le imposte e spalancato la finestra… ma non bastava.

Quando è arrivato, Bruto ha cominciato ad abbaiare selvaggiamente, saltando contro la finestra come se intendesse saltarci attraverso. Niente che potessi dire o fare lo avrebbe trattenuto. Ho dovuto chiudere la finestra e le imposte e ritornare a letto, per timore che il suo folle abbaiare svegliasse l’intera casa.

Ho cercato di portare Bruto in cucina e ho scoperto che lì c’era Dunya, addormentata sul pavimento. Quando siamo entrati si è mossa, e allora mi sono affrettata a ritornare in camera con il cane.

Sono più forte, ma ho smesso di cambiare. Questo non mi piace. Non mi piace aspettare. Bisogna fare qualcosa.

Il diario di Arkady Tsepesh

14 aprile. Finalmente sono abbastanza in forze per sedermi e scrivere. Non ricordo nulla di ieri tranne i delicati lineamenti di Mary, circondati da riccioli d’oro che pendono e accarezzano le mie guance quando lei china il suo viso sopra il mio. Il suo viso, il suo delicato e fresco tocco sulla mia fronte e le sue parole sussurrate di conforto: questo è tutto ciò che ricordo. È così buona verso di me, così gentile. Ho cercato diverse volte di chiederle perdono per avere, prima, alzato la voce con lei, ma con la punta delle dita si limita a toccarmi le labbra e sorride.

Mio Dio, vorrei poter dimenticare gli eventi del dodici di aprile, ma essi mi perseguiteranno per il resto della mia vita. Dove porterà? Dove porterà tutto questo? Ma no, adesso non devo pensare al futuro. Vedete? La mia mano comincia a tremare. No, devo semplicemente metterlo per iscritto, e da questo atto sperare di capire ciò che devo fare.

L’altro ieri, il fatale dodici, ho saputo che mia sorella era ammalata di anemia. Questa era una notizia abbastanza penosa ma, dopo che andai a visitare Z., Mary mi rivelò che aveva visto Vlad nella camera da letto di Zsuzsa a tarda notte e che i due si erano abbracciati.

Mi vergogno di scrivere che ho urlato contro la mia povera moglie. Non riuscivo a credere a niente di così orribile riguardo a mia sorella e a Vlad, il generoso benefattore di noi tutti. Nello stesso tempo, sapevo che Mary era incapace di mentire, per cui doveva essere vero, ma in quel momento sentii ancora una volta la morsa dell’incombente follia e mi sono lasciato andare a una rabbia insensata. Sono andato nello studio e mi sono chiuso dentro, pensando di mettere tutto per iscritto e alleviare la rabbia, ma ero troppo agitato. Ho lasciato quindi la casa e ho preso il calesse, incerto su quale fosse la mia destinazione.

Era un caldo giorno di primavera. L’alba era stata chiara, ma il primo pomeriggio vide delle nuvole scure riempire il cielo, e nell’aria c’era la sensazione e l’odore di un imminente temporale. Un qualche inspiegabile impulso mi guidò verso il bordo della foresta dove avevo visto Stefan l’ultima volta. Mentre spingevo i cavalli tra gli alberi, una pioggia gentile cominciò a cadere, ma il folto fogliame mi proteggeva. Anche così mi bagnai, poiché i lunghi rami mi spruzzavano di rugiada.

Gli animali scossero le teste e nitrirono la loro disapprovazione alla mia assurda decisione di ripenetrare nella foresta. Mi dissi che non avevo paura, sebbene la mia bocca fosse all’improvviso così secca che la lingua era incollata all’interno delle guance, e tenessi le redini tese con le mani leggermente tremanti. Non avevo paura, anche se non potevo fare a meno di guardare, in su verso le cime degli alberi più alti, per vedere se Jeffries stesse lì, oscillando al vento.

Era giorno, e faceva caldo. I lupi non attaccavano durante il giorno con il caldo, né attaccavano singolarmente, ma in branco, e questo soltanto nelle notti d’inverno. Questa era la comune saggezza popolare, eppure Stefan era morto in un giorno d’estate bello e scintillante, ucciso da un mezzo-lupo solitario. Mi ricordai del revolver di papà, accanto a me sul sedile, dove l’avevo messo proprio per una tale occasione. Me lo misi in grembo.

Non c’era segno di Stefan. Feci procedere ancora un po’ i cavalli lentamente, sforzando gli occhi in cerca, nell’oscurità ombrosa, del piccolo corpo del mio defunto fratello. Ripercorremmo la strada che ricordavo, arrivando infine a fermarci nel punto che credevo quello in cui i lupi avevano attaccato.

I cavalli alzarono gli zoccoli e sbuffarono, impazienti, nervosi.

Io rimasi fermo, guardando lo stesso punto nell’ombra di un ontano dove credevo di aver visto Stefan l’ultima volta. Guardavo e ascoltavo un lontano frusciare negli alberi, molto probabilmente di uccelli e scoiattoli. Un corvo gracchiò in segno di rimprovero; un uccello cantò.

Rimasi seduto a guardare per parecchi minuti, consapevole di ogni suono attorno a me, del ticchettio attutito della pioggia contro gli alberi, e del mio stesso respiro. Infine, molto lentamente, dal reticolato di luce e di ombra, stagliato contro le foglie tremanti, emerse Stefan.

Con un gesto in direzione dei profondi recessi della foresta, mi indicò di proseguire.

Lo seguii, con le ruote che rotolavano sul terreno umido cosparso di aghi, tra lo spezzarsi secco dei ramoscelli.

Ancora una volta, lo spettro di mio fratello svanì, soltanto per riapparire una volta che avevo proseguito per una discreta distanza nella direzione indicatami. In questa maniera, continuai per una buona mezz’ora a procedere nella foresta.

Finalmente Stefan riapparve, ma non fece più gesti; mi fissò soltanto per un po’, intensamente, come potrebbe fare una persona cara che cercasse alla partenza di memorizzare i dettagli del mio viso.