«Signore, noi non osiamo! Siamo state pagate per cantare i Bocete e, se il canto cessa anche solo per un momento, l’anima di vostro padre non sarà del tutto pronta per riposare in pace!».
«Andate via», ripetei, troppo esaurito dal dolore per iniziare una discussione.
«Signore, il Principe ci ha dato una somma generosa. Si arrabbierebbe se…».
«Io, qui presente, vi libero da ogni obbligo!». Con un ampio gesto, così brusco che entrambe le donne si ritrassero, puntai un dito verso la porta. «Se il Principe si arrabbia, si dovrà arrabbiare con me!».
Le gonne nere frusciarono, e le litanianti si affrettarono verso la porta, lanciando all’interno sguardi di muto terrore.
Finalmente, rimasi solo. Tirai un sospiro e camminai intorno alla bara per guardare il mio defunto e amato padre. Era un uomo alto, di bell’aspetto ma, come Zsuzsanna, era invecchiato di decenni nei pochi anni trascorsi da quando ero partito; i suoi capelli di un nero corvino, generosamente striati di grigio ferro al momento della mia partenza per l’Inghilterra, erano diventati completamente d’argento, e la sua fronte era profondamente segnata dalle preoccupazioni.
La sua vita era stata rovinata dalle tragedie: la pazzia e la deformità avevano perseguitato le recenti generazioni degli Tsepesh, in seguito a scambi matrimoniali tra famiglie boier. Suo nonno, la madre e la sorella, erano impazziti, un’altra sorella e due fratelli avevano dei difetti fisici e la tubercolosi. Della sua generazione, soltanto Petru e suo fratello, Radu, erano sfuggiti alla maledizione familiare, ed erano vissuti fino a raggiungere l’età adulta. Poi c’era stata la spina dorsale e la gamba storta di Zsuzsanna, nonché la sua conseguente condizione di zitella, la morte di sua moglie, e la morte di Stefan. Una fitta di colpa e di tristezza mi sopraffece, comprendendo che la mia partenza per l’Inghilterra aveva, senza dubbio, aumentato il suo senso di perdita. Era morto senza aver mai visto suo nipote.
(Caro bambino non nato, come vorrei che avessi conosciuto di persona la gentilezza d’animo di tuo nonno, e la dolcezza, la profondità e la costanza del suo amore. Come ti avrebbe viziato, te, suo unico nipote, come si sarebbe divertito a intagliare per te dei giocattoli di legno, come faceva per me, Zsuzsanna e Stefan. Per conoscere il suo volto, non hai che da guardare quello di tuo padre; i miei lineamenti taglienti, da falco, sono i suoi, così come i miei capelli di un nero corvino, sebbene i miei occhi siano color nocciola, un miscuglio tra gli occhi verdi di mio padre e quelli castani di mia madre. Vorrei poterti dire di aver conosciuto tua nonna, ma gli unici ricordi che possiedo di lei sono le storie raccontate da mio padre; lei morì poco tempo dopo la mia nascita).
Fissai il suo viso pallido, come di cera, con i lineamenti aguzzi, tirati. Gli occhi erano chiusi, ed io mi lasciai andare a un solitario, lacerante singhiozzo, comprendendo che non avrei mai più guardato quegli occhi verdi, belli e intelligenti. Piansi amaramente mentre poggiavo la mia guancia contro il suo freddo petto immobile e lo imploravo, come un bambino, di aprire di nuovo quegli occhi, soltanto una volta, una volta ancora.
Non so quanto a lungo la mia angoscia continuò, ma so soltanto che, dopo un po’ di tempo, mi calmai abbastanza per sapere che qualcosa di freddo e metallico mi graffiava la guancia. Sollevai la testa e vidi sotto di essa un grosso crocifisso d’oro attaccato a un rosario che era stato appeso intorno al collo di mio padre. Ovviamente, era stato un servo superstizioso o le cantanti di Bocete a metterlo lì, sapendo benissimo che avrebbe profondamente offeso papà. In un accesso di furia, lo strappai. La catenella si ruppe subito e le perle caddero nella bara e si sparsero sul pavimento. Scaraventai quello che ne rimaneva dall’altra parte della stanza; il crocifisso colpì la parete di pietra con un lieve tintinnio.
Rimasi adirato per un po’, quindi mi calmai: chiunque avesse fatto quello, l’aveva fatto con buone intenzioni. Lentamente, recuperai la croce e le perle, e le feci scivolare nella tasca del mio gilet, poi mi sedetti sul banco di legno vicino alla bara, e presi la lettera di mio padre, scritta con l’originale e artistica calligrafia di Zsuzsanna. Diceva:
Mio caro Arkady,
Quando leggerai questa mia sarò morto (a questo punto c’era una macchia sulla pergamena, dove era colato l’inchiostro). Con tutto il mio cuore, ti auguro che tu, tua moglie e il bambino, possiate ritornare in Inghilterra, per condurre la vita che avete sempre voluto condurre. Ma senza di te, senza nessuno che amministri la proprietà, tuo zio è senza risorse. Devi prendere il mio posto e fare qualunque cosa il Principe chieda, per il bene della famiglia. Non si può evitare; non può essere fatto null’altro.
Non ha importanza quale male ti potrà accadere: una cosa ti dovrai sempre ricordare. Che io ti amo con tutta la mia anima e che anche tuo zio ti ama, a suo modo. Possa questa conoscenza sostenerti in tempi di futuro dolore.
Addio! Il mio saluto affettuoso a te, a mia nuora, e al nipote che non vedrò mai.
Rimasi immerso nel dolore per un po’ di tempo. Non posso onestamente dire che la richiesta di mio padre di prendere il suo posto arrivasse come una sorpresa; Mary ed io l’avevamo discussa da quando era arrivato il telegramma di Zsuzsanna. Quando, al principio, ero partito per l’Inghilterra, intendevo ritornare a casa alla fine dei miei studi per assistere mio padre nell’amministrare la proprietà ma, a quel tempo, immaginavo che lui sarebbe sopravvissuto allo zio e avrebbe ereditato tutto. Negli anni intercorsi, mi ero abituato al mio nuovo paese, mi ero innamorato di una ragazza inglese, mi ero sposato, e mi ero dimenticato completamente dei miei obblighi familiari.
Non posso ignorarli ancora. La nostra famiglia ha affrontato un gran numero di difficoltà a causa di matrimoni tra consanguinei. Nella nostra famiglia ci sono stati bambini deformi e malati, come Zsuzsanna, e dei pazzi, per cui essa si è assottigliata nel corso dei secoli, finché soltanto mio padre e suo fratello sono rimasti a dare continuità al nome.
Fortunatamente, mio padre aveva sposato una straniera, una robusta donna russo-ungherese, e ambedue — mio padre e lo zio — erano stati tanto gentili da concedere la loro benedizione, quando avevo annunciato il mio fidanzamento con Mary.
Ma, quando morirà lo zio, io sarò l’ultimo maschio Tsepesh… o Dracula, per usare l’odioso nome datoci dai contadini. È semplicemente la cosa più giusta che io possa fare quella di crescere qui i miei figli e insegnare loro ad amare questa terra come io la amo, così come fecero mio padre, e suo padre, e tutti i miei antenati prima di me. Abbiamo posseduto questa terra per quasi quattrocento anni. Non la posso abbandonare: venderla a degli sconosciuti sarebbe impensabile.
Per quanto sia fiero della mia eredità, provo un opprimente senso di colpa nel chiedere a Mary di rinunciare all’Inghilterra e di rimanere in questo paese arretrato e isolato. Lei insiste nel dire che ha sempre saputo che sarebbe finita così e che è del tutto pronta. Ma ciò è ben poco per alleviare la mia preoccupazione. Non posso essere felice se lei non lo è.
Eppure, nell’oscuro silenzio illuminato solo dalle candele, faccio un solenne giuramento… una promessa a mio padre, sul letto di morte, anche se con parecchie ore di ritardo: rimarrò, come lui ha chiesto, e mi prenderò cura dello zio. Mary ed io faremo crescere qui suo nipote, sulla proprietà che lui amava tanto, ed io non trascurerò di raccontare a quel bambino di suo nonno e di tutti quei Tsepesh che lo hanno preceduto.