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Mentre mi avviavo verso le scale, mi sono fermata alla porta aperta della stanza da letto accanto e poi sono entrata per restare a guardare la culla che vi si trovava. Qualche giorno fa, Dunya l’ha tirata fuori per pulirla. È di ciliegio robusto e lucido, un bell’oggetto; Arkady e suo padre — e chissà quante generazioni di piccoli Tsepesh — vi hanno giaciuto.

La vista della piccola culla, con i bordi bruniti fino a diventare leggermente lucidi per il tocco di tante mani materne, mi ha fatto venire le lacrime. Ero amaramente delusa perché ho capito (in quel momento, ma ora non rimarrò) che probabilmente non avrei potuto più viaggiare e che il bambino sarebbe nato qui nella casa. Ogni giorno i movimenti diventano più difficili. Il bambino è sceso più in basso e, con l’istinto di una madre, so che la gravidanza sta quasi per finire.

Con tristezza ho sceso, con passo ondeggiante, le scale per fare colazione. Ero affamata e ho mangiato tutto ciò che il cuoco mi ha messo davanti, ma il cibo mi ha provocato un’ulteriore indigestione. Gentilmente il cuoco mi ha preparato una tisana di menta e io l’ho bevuta nel piccolo giardino, assolato e caldo. Ho chiesto di Dunya, pensando di darle le istruzioni per lavare le lenzuola e le coperte per la piccola culla, ma nessuno degli altri domestici l’aveva ancora vista.

Sentendo il caldo del sole e la fresca brezza sul mio viso, ascoltando il canto degli uccelli, mi sono sentita abbastanza in forze per farmi un silenzioso rimprovero, per il bene del bambino. Sapevo che il bambino sentiva l’ansia della madre: non sarebbe stato un bene né per lui, né per me, avvicinarsi al momento della nascita con una mente tormentata da visioni di lupi e Vampiri.

E così ho fatto un patto con me stessa per bandire i pensieri oscuri. Da quel momento in poi, mi sono decisa ad essere allegra, a trascorrere le mie giornate senza pensare a Zsuzsanna e a Vlad — cosa di cui avrei incaricato Dunya — ma all’arrivo del bambino. Tutto questo parlare di strigoi doveva essere una sciocchezza e tutte le strane cose che avevo visto, erano la conseguenza della gravidanza, del lutto, e della preoccupazione riguardo a mio marito. Il lupo che mi aveva attaccato alla finestra era, senza dubbio, malato di rabbia, e i suoi occhi verdi erano il prodotto della mia immaginazione, dolorosamente turbata dal conoscere la storia d’amore proibita di Vlad e Zsuzsanna.

Semplicemente, non potevo permettermi più di credere alle sciocche storie di Dunya. Per il bene di mio figlio.

E, se non fossimo potuti andare a Vienna, pazienza; avrei trovato un modo per essere felice e a mio agio qui, almeno finché il bambino fosse stato abbastanza grande per viaggiare. Non c’era ragione di spingere Arkady ad avere uno spiacevole litigio con Vlad.

Quando ebbi deciso, mi sentii molto sollevata. Ritornai al piano di sopra, pensando di svegliare Arkady e di scusarmi per il mio precedente attacco di nervi e di rassicurarlo che, se Vlad trovava disdicevole che noi partissimo in quel momento, non ci saremmo irritati, ma invece ci saremmo concentrati sulla gioia che stava per sopraggiungere. Ci meritavamo un po’ di felicità.

Ma Arkady se ne era già andato, si sarebbe detto in fretta, perché aveva lasciato aperto il suo stipo e il diario era aperto, come se l’avesse abbandonato in fretta, accanto al cuscino.

Lo chiusi con cura, lo misi sul suo comodino, e tappai la bottiglia di inchiostro che vi trovai. Sarei scesa di nuovo in cucina in cerca di lui ma il pensiero di affrontare ancora le scale mi trattenne. Invece, mi diressi verso l’ala est e la camera da letto di Zsuzsanna, richiamando alla mente il piacevole pensiero che avrei potuto passare il giorno con Dunya e la zia di mio figlio sistemando i vestiti e la biancheria di famiglia per il bambino e preparando la sua stanza. Ricordai che Zsuzsanna aveva sorriso tanto radiosamente, parlando di quanto sarebbe stato bello sentire ancora in questa casa le risa di bambini.

Si era fatto piuttosto tardi, quasi mezzogiorno, ma la sua porta era ancora chiusa. Bussai: non venne alcuna risposta. Chiamai: non udendo ancora risposta, aprii con circospezione la porta solo un po’ e sbirciai dentro.

La luce del sole entrava attraverso la finestra aperta, con le imposte aperte. I miei occhi videro, dapprima, il lontano sedile della finestra, poi notai che Dunya aveva già tolto i fiori d’aglio.

E quindi mi si gelò il cuore quando udii il suono di un leggero russare e compresi che entrambe le donne erano ancora addormentate. Entrai e, quando lo sguardo mi cadde su Zsuzsanna, alzai una mano alla bocca e gridai forte:

«Mio Dio!».

Aveva scritto mentre giaceva nel letto, ma la debolezza le aveva fatto cadere la penna e rovesciare la bottiglia d’inchiostro; il nero liquido indelebile ora macchiava la coperta e le lenzuola. Il suo piccolo diario non era rivoltato, i fogli erano aperti come un ventaglio.

Ma non erano le grandi macchie nere sul letto che mi avevano fatto gridare. Zsuzsanna era più pallida delle lenzuola, più pallida del cuscino sul quale giaceva la sua testa. Ansimò, il petto le si sollevò mentre lottava per respirare, e il suo bianco viso contorto era segnato da lievi rughe grige che sembravano il risultato del pennello di un acquarellista. Le labbra aperte rivelavano delle gengive senza colore che si erano talmente ritirate da far apparire i denti diabolicamente lunghi.

«Zsuzsanna», dissi infine, e corsi al suo fianco.

Le presi la mano; era gelata e senza vita come quella di un morto.

Era completamente sveglia. I suoi occhi scuri, cerchiati di un’ombra viola e spalancati con infantile innocenza, mi fissavano con una lucidità spaventosamente intensa; lottò per inalare aria sufficiente per parlare, ma non ci riuscì.

«Non ti muovere», bisbigliai. «Non parlare…».

Spostai il diario e l’inchiostro sul comodino, notando, così facendo, il crocifisso che vi si trovava, con la catenina rotta e arrotolata, come se lei (o qualcun altro) l’avesse strappata dal collo con impazienza. Mi sistemai accanto a lei, evitando la grande macchia umida sulla coperta, e con delicatezza le accarezzai i capelli all’indietro sulla fronte.

Il mondo sicuro, felice, che avevo cercato di creare per me stessa quella mattina, mi crollò completamente intorno. Sapevo che Vlad era tornato la notte precedente per far visita a Zsuzsanna… e per minacciarmi.

Lo ucciderò prima di permettergli di fare del male a mio marito o a mio figlio.

Andai verso Dunya, che giaceva sul pavimento sotto una coperta, la presi per le spalle e la scossi. Il suo torpore era maggiore di quello che il laudano abbia mai provocato; mentre la testa di Dunya ciondolava sonnolenta sulle spalle, sono riuscita soltanto a pensare al mio incubo da sveglia degli occhi verdi di Vlad. Non aprì nemmeno gli occhi finché non le urlai nelle orecchie:

«È ritornato! È ritornato, e Zsuzsanna sta per morire!».

Questo sembrò farla riavere. Batté le palpebre e si strofinò gli occhi, poi vide Zsuzsanna e si coprì il viso con le mani mentre emetteva un gemito pieno d’orrore che mi spezzò il cuore.

Ma non c’era tempo per la pietà. Le diedi un’altra scossa e dissi:

«Vai immediatamente al piano di sotto e manda uno degli uomini a prendere il dottore!».

Abbassò le mani, scostò la coperta, quindi si mise in piedi con uno sforzo. Le lacrime le brillarono negli occhi mentre si chinava su Zsuzsanna — che ci guardava con uno sguardo stranamente intenso — e delicatamente le abbassò la camicia da notte fino alla gola. Tirò giù la stoffa di uno o due pollici e indietreggiò con un sussulto.

Io mi feci accanto a lei e seguii il suo sguardo, nel punto sul collo bianco latte di Zsuzsanna, proprio sopra la clavicola, dove c’erano stati quei terribili segni rossi. Impossibile, ma erano completamente scomparsi, non lasciando alcuna traccia, nemmeno delle piccolissime cicatrici: nulla se non una pelle perlacea, perfetta.