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Dunya ritirò la mano tremante e si raddrizzò, poi fece segno di uscire nel corridoio, per timore che Zsuzsanna potesse ascoltare.

La seguii nel corridoio con un senso di terrore.

«È troppo tardi per il dottore», bisbigliò tristemente. «Avete visto che i segni sono guariti. Il cambiamento è completo; morirà prima di domani».

All’udire queste parole provai un’ondata di rabbia: era ingiusto che Zsuzsanna dovesse essere tanto crudelmente colpita, ingiusto che Vlad dovesse trionfare. Quella povera donna aveva sopportato una vita già abbastanza difficile, e ora sarebbe morta, in un momento in cui avrebbe dovuto con gioia aspettare la nascita di suo nipote, insieme con la sua famiglia. La mia determinazione di essere lieta per amore del bambino si sgretolò; Vlad aveva vinto ancora.

Sfogai la rabbia su Dunya, gridando:

«Non mi importa di quello che dice la superstizione! Vai a prendere il dottore! Dobbiamo fare qualcosa per aiutarla!».

La povera ragazza indietreggiò, tremando, poi si inchinò e volò giù per le scale. Io ritornai al capezzale di Zsuzsanna e le presi la mano fredda e senza vita; lei mi guardò con quegli occhi grandi, stranamente euforici.

«Andrà tutto bene», dissi per calmarla. «Abbiamo mandato a prendere un dottore. Ti faremo star bene…».

Tirò un respiro, con difficoltà e lasciò uscire un lieve sospiro che trasportava una parola appena udibile:

«No…».

«Non parlare così», dissi con fermezza, sentendo ancora le conseguenze della mia furia verso Vlad, verso il destino, verso Dio, perché una cosa così crudele dovesse accadere a una creatura tanto indifesa. «È naturale che starai meglio».

I suoi occhi brillavano, lucidi per l’eccitazione e per una vibrante e radiosa gioia in netto contrasto con la sua apparenza cadaverica. Lottò per tirare un altro respiro e, con uno sforzo che faceva dolore a vederlo, bisbigliò:

«No… io voglio… la morte…».

Ammutolii, con il cuore trafitto. Non c’era nulla che potessi fare se non rimanere accanto a lei e tenerle la mano e, quando Dunya riapparve, senza fiato per aver corso per le scale, la mandai nuovamente via per andare a chiamare Arkady.

Era partita da un po’ di tempo. Durante la sua assenza, Zsuzsanna chiuse gli occhi e sembrò dormire ed io — Dio mi perdoni — non potei più resistere alla tentazione di leggere il piccolo diario sul comodino. So che è un peccato invadere la vita intima di un altro, ma dovevo sapere la verità, dovevo sapere se il mio reale nemico era l’incarnazione del Male, la follia o la superstizione.

E così, furtivamente, liberai la mia mano dalla sua, presi il diario dal tavolo, e lo aprii alle ultime annotazioni.

Non ci sono parole. Nessuna parola può descrivere la repulsione, l’orrore, il fascino sinistro che quelle pagine ebbero su di me. Non posso… non posso scrivere qui quello che ho letto. La decenza lo vieta.

Zsuzsanna aveva preso il Vampiro per suo amante.

Il mio primo pensiero fu che si trattasse del tipo più grottesco, osceno, di fantasia, ma la fantasia può uccidere una donna? Se è pazza, allora noi siamo tutti pazzi come lei, e viviamo in un mondo in cui il magico, l’impossibile, il fantasticamente malvagio, sono clamorosamente reali… e mortali.

Divorai le ultime quattro annotazioni con una rapidità nata dalla curiosità e dal terrore, poi misi da parte quell’orribile libretto e alzai le mani tremanti al viso.

Pensai: Dobbiamo fuggire immediatamente.

Pensai: Adesso è libero di andare in Inghilterra.

Pensai: Lo dobbiamo uccidere subito.

Fissavo Zsuzsanna che dormiva, che moriva, e nella mia mente udii la voce solenne di Dunya:

«… uccidilo, doamna con il palo e il coltello. È l’unico modo…».

Zsuzsanna si mosse, aprì languidamente le palpebre e mi fissò.

Le ripresi la mano e cercai di ricomporre la mia espressione per darle conforto: cercai di sorriderle.

Come erano grandi quegli occhi, come erano infinitamente scuri, profondi e affettuosi. Brillavano della radiosità leggermente folle, beata, di una santa, brillavano come un mare a mezzanotte increspato dai raggi lunari. Essi mi accarezzavano, attirandomi come una corrente oceanica.

Senza capirlo, mi chinai più vicino alla donna morente, finché il suo lieve respiro affannoso mi riscaldò le guance, finché i nostri volti furono distanti appena un palmo l’uno dall’altro. In quel momento, fui all’improvviso colpita dal fatto che nella morte il viso, fino a quel momento scialbo, di Zsuzsanna, aveva assunto la bellezza classica di una Venere di alabastro, scolpita dai più grandi artisti romani. La sua bocca era più morbida, più piena, toccata dalla stessa sensualità appena sbocciata che emanava dai suoi profondissimi occhi, occhi che diventavano più grandi man mano che mi avvicinavo, finché riempirono il mondo intero.

«Mary», disse muovendo le labbra silenziosamente… o, forse, non parlò affatto: forse, i denti, la lingua e le labbra, non si mossero mai. Forse immaginai soltanto che lottasse per pronunciare il mio nome. «Dolce sorella. Baciami prima di morire».

Mi arresi, sprofondando in quell’oscuro oceano di quegli occhi con la pace euforica di un nuotatore che sta per annegare e che, alla fine, si arrende alla morte. Portai le mie labbra più vicine a quelle pallide e aperte finché fui a pochi centimetri da lei. Lei sorrise con lo stesso sognante piacere che ora mi circondava e la sua lingua schioccò per il desiderio sui denti bianchi e splendenti.

La porta si spalancò, sbatacchiando forte. Mi raddrizzai e, con un sussulto, ritornai al normale stato di coscienza.

«Doamna!», esclamò Dunya senza fiato.

Rimase all’entrata, con una mano sull’architrave, il robusto e piccolo corpo teso, pietrificato dalla paura. Seppi immediatamente che aveva, di proposito, fatto un forte rumore. Zsuzsanna non si mosse, ma la tenerezza nei suoi occhi era completamente svanita, sostituita da un’inequivocabile espressione di fame… e di odio furioso.

«Doamna», ripeté Dunya, con dei modi goffamente formali, «se potessi parlarvi nel corridoio…».

Mi alzai rigidamente, come se fossi stata seduta sulla sedia per l’eternità invece che per mezz’ora, e seguii la ragazza nel corridoio.

Quando fummo entrambe fuori della stanza, Dunya si avvicinò alla porta e la chiuse, in modo che a Zsuzsanna non fosse possibile sentire. Nell’istante che la chiuse con uno scatto, si elettrizzò e bisbigliò in gran fretta, con l’aria di un cospiratore in preda al panico:

«Non la dovete baciare, doamna, né permettere che qualcun altro lo faccia! È affamata, e adesso c’è la possibilità che il suo bacio possa creare un nuovo strigoi».

Mi appoggiai al muro improvvisamente esausta e posai le mani sul mio ventre, sperando di poter coprire le orecchie del mio povero bambino, per proteggerlo da tutta quella follia.

«È vero», dissi debolmente, più a me stessa che a Dunya. «È tutto vero riguardo a Vlad. Ho letto il diario di Zsuzsanna».

Il turgido labbro inferiore di Dunya cominciò a tremare. Con voce alta e incerta, disse:

«È colpa mia, doamna. Lei morirà per colpa mia».

E si coprì gli occhi con le mani cominciando a piangere, con amari e striduli singhiozzi che scuotevano il suo piccolo corpo.

La circondai con le braccia e le diedi dei piccoli colpetti sulle spalle, leggeri e regolari, come farebbe una madre con un neonato in preda alle coliche; si afferrò a me disperatamente, come un bambino, e ansimò:

«Mi ha fatto dormire… se non fossi stata così debole… ma non capisco perché è diventata tanto forte…».