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«Il suo aiuto, doamna. Per badare a che lo strigoi si nutra, per il bene della famiglia, del villaggio, del paese».

Mio povero caro…!

Il diario di Arkady Tsepesh

17 aprile. Aggiunta scritta su una pergamena. Mi sono chiuso nell’ufficio di papà; il suo revolver è sulla scrivania, vicino alla mia mano destra. Tra mezz’ora, ritornerò al piano inferiore e scorterò Herr Mueller e sua moglie verso la sicurezza della nostra casa. Fino a quel momento, devo fare qualcosa per calmarmi i nervi e tenere la mente libera dalle immagini della testa mozzata di Jeffries, e dalla maniera in cui ha incontrato il suo destino… per mano di Laszlo, o di V.?

E così scrivo, usando gli articoli di cancelleria dello zio.

Quando ho visto Laszlo e gli ospiti oltrepassare in carrozza la casa, mi sono gettato addosso dei vestiti, ho afferrato la pistola, e sono andato immediatamente alle stalle, dove ho attaccato i cavalli al calesse. Mi sono diretto a tutta velocità verso il castello e, mentre raggiungevo la cima della collina, a circa cinquanta piedi di distanza, ho visto che la carrozza era stata già scaricata e che lo stalliere aveva ricondotto i cavalli nella stalla.

Mi sono fermato nel cortile principale e ho legato i cavalli al palo. Non c’era ragione di togliere i finimenti; non sarei rimasto a lungo.

La porta era stata chiusa, e così suonai e attesi, camminando avanti e indietro con impazienza, finché Ana rispose.

«Dove sono gli ospiti?», domandai.

Le sue sopracciglia si sollevarono e gli occhi si spalancarono di fronte alla mia accalorata veemenza.

«Beh, di sopra, naturalmente, signore. Helga ha preparato loro un bagno; sono piuttosto stanchi e pieni di polvere».

Passai spingendola di lato e, salendo le scale, mi diressi direttamente alla camera degli ospiti dove era stato il povero Jeffries. La porta era già chiusa e, quando bussai, la risposta arrivò dopo così tanto tempo che, sulle prime, temetti che Helga li avesse portati altrove.

Poi udii il rumore dell’acqua e una risatina femminile, molto soffocata e debole; quindi, la voce di un giovanotto, un po’ più vicina, che gridò forte in tedesco:

«Andate via».

«Sono un membro della famiglia Tsepesh», gridai, nella stessa lingua, «e vi devo parlare immediatamente».

«Chi?».

Il suo tono che si alzava, indignato, rivelò che aveva udito il nome ma che non lo riconosceva.

Arrossii, ricordando come V. firmasse, per scherzare, la corrispondenza con i suoi ospiti. “Uno della famiglia Dracul”, gridai e, quando seguì un silenzio di attesa, aggiunsi:

«Mi dispiace disturbarvi, ma la questione è urgente».

«Un momento», rispose il giovanotto.

Attesi pazientemente il momento richiesto — in realtà, parecchi minuti — mentre oltre la porta chiusa venivano dei suoni deboli, attutiti, di conversazione, movimenti accompagnati da altro rumore d’acqua, poi il chiudersi di una porta interna alla camera da letto.

Infine dei passi si avvicinarono, e la porta di aprì in parte, lasciando intravedere un giovanotto ben rasato, con gli occhiali e i capelli ricci, di un castano dorato, decisamente bagnati e arruffati. Non doveva avere più di diciotto anni, con un viso ben fatto e bello che ostentava un piccolo naso all’insù che accentuava la sua giovinezza.

Feci del mio meglio per far finta di non notare che si sporgeva in modo tale da nascondere la metà inferiore del corpo; la parte superiore era coperta da una giacca da casa in seta, bagnata, che gli si incollava alla pelle.

«Herr Mueller?», chiesi con educazione, ricercando nella mia memoria il nome sulla lettera che V. aveva dettato.

«Ja?».

Lottò per mantenere un comportamento civile, ma non riuscì interamente a nascondere il fatto che era ansioso di liberarsi di me; teneva una mano sulla maniglia della porta nella speranza di congedarmi rapidamente.

«Sono Arkady…», esitai. «…Dracul, nipote del Principe Vlad. Sono spiacente di disturbare la vostra privacy e quella di vostra moglie», a queste parole il giovanotto arrossì violentemente, «ma c’è stato uno sbaglio. Il nostro cocchiere non avrebbe dovuto portarvi qui al castello, ma alla casa, dove è stata preparata una stanza per voi. Ora, vi ci porterò io».

Non desideravo affatto spaventare quella brava gente; se fossi riuscito a portarli via dal castello ignari del pericolo, sarebbe stato meglio.

«Ma qui la stanza è perfetta», esclamò Herr Mueller. «Graziosa! E inoltre…». Mi osservò con una traccia di sospetto. «Vostro zio ha lasciato un biglietto nella stanza per darci il benvenuto qui. Perché dobbiamo andar via?».

Mi sforzai di pensare a un motivo imprescindibile che non fosse la verità.

«Sì, bene… Avete mai ricevuto la mia lettera a Bistritz? Quella che vi avvertiva di una malattia al castello?».

I suoi occhi si ingrandirono leggermente; indietreggiò di un passo allontanandosi da me, dalla porta.

«Beh, no… Solo la lettera di vostro zio che spiegava quando incontrare la carrozza».

La lettera che pensavo di aver gettato nel fuoco. Mi sforzai di non impallidire a quella rivelazione.

«Ah», dissi gravemente, «non vi ha raggiunto. Non è nulla di troppo grave, naturalmente», e a ciò i suoi occhi si strinsero e indietreggiò di un altro mezzo passo dalla porta, «ma noi pensiamo che sarebbe più sicuro per voi alloggiare nella casa finché la malattia non ha abbandonato il castello».

«Di che malattia si tratta?», insistette Herr Mueller, ma io replicai che era meglio discutere tali dettagli una volta che fossimo arrivati nella casa.

Fu così che Herr Mueller divenne estremamente ragionevole ma chiese un po’ di tempo — “Trenta minuti, non di più” — per amore di sua moglie che era “stanca, si sentiva poco bene e stava facendo il bagno”.

Gli dissi, con severità, che non avrei potuto concedergli altro tempo, e gli diedi istruzioni per tenere la porta chiusa a chiave e aprirla solo quando io — e nessun altro — sarei ritornato a cercarlo.

Andai direttamente nel mio ufficio e scrissi un brevissimo biglietto per V. dicendo che sapevo di infrangere la sua regola riguardo al non interferire con i visitatori, ma che era estremamente necessario e per il suo stesso bene, così come per quello degli ospiti.

Pensai, dapprima, di lasciarlo nello studio, sul tavolo dove l’avrebbe sicuramente trovato, ma temendo che uno dei domestici lo potesse togliere, decisi di farlo scivolare sotto la porta delle sue camere private.

Il pensiero di fare in questo modo ha evocato ancora la strana, inafferrabile immagine sepolta nella mia memoria di bambino:

Il lampeggiare d’argento del coltello; il dolore mentre tagliava la pelle delicata del mio polso. Mio padre che tiene il mio braccio sopra… qualcosa d’oro che brilla debolmente. Non riesco a vederlo ora. Ma ricordai ancora una volta l’antico trono e, questa volta, le parole JUSTUS ET PIUS, giusto e fedele…

Degli artigli invisibili si conficcarono nel mio cervello con tale forza che il dolore mi sconvolse. Gridai e caddi in avanti, con i gomiti e il viso fermi sulla macchia d’inchiostro, le mani che afferravano la parte posteriore del cranio, e mi arresi per un po’ all’oscurità.

Adesso mi sono ripreso per ritrovarmi a fissare la lettera nelle mie mani. È ora di infilarla sotto la porta di V., poi, con rapidità, di andare a prendere gli ospiti.

Passi sulle scale! Sta arrivando qualcuno: il revolver…

Il diario di Mary Windham Tsepesh

18 aprile. Sono le prime ore del mattino e non riesco a dormire. Questa casa è talmente piena di tristezza e disperazione: come potrà mai chiunque di noi dormire di nuovo in pace?