Arkady cedette, sopraffatto dal dolore, abbracciando strettamente il corpo di Zsuzsanna e gridando in rumeno. Vlad pianse — pianse vere lacrime! — con lui, poi gli mise una mano sulle spalle e cercò di confortarlo, ma non c’era niente che potesse essere fatto per alleviare il dolore di Arkady; lui spinse via la mano dello zio, con rabbia, e poi si voltò verso di me e ordinò:
«Lasciami! Lasciami solo con lei!».
Con il cuore spezzato, obbedii e andai con gli altri nel corridoio, insieme al Vampiro.
Il dolore e il turbamento di Vlad nella camera di Zsuzsanna erano stati così genuini che provai veramente della compassione per lui, compassione che poi svanì poiché, mentre si voltava per guardare Dunya che usciva, colsi la sua espressione e il lampo della vittoria nei suoi occhi. E inoltre, un’intelligenza così estremamente fredda, così estremamente calcolatrice, che non provai paura, ma solo un tale odio che per un momento non riuscii a parlare.
Nonostante l’ostentazione di devozione verso Zsuzsanna, non era che un mostro, non era che un assassino.
Guardandomi, la sua espressione divenne, ancora una volta, quella di un parente preoccupato, e mi disse in tedesco:
«Tuo marito ne ha sopportate tante. Adesso devi cercare di confortarlo».
Come risposta, feci scivolare un dito sotto il colletto del vestito, presi la catenina d’oro… e tirai fuori la croce, in modo che potesse vederla.
I suoi occhi scintillarono di rosso, come quelli di un animale illuminati dalla luce di un lampo di notte. Si allontanò di un passo ma io colsi la fuggevole espressione di furia che gli attraversò i lineamenti. In un modo molto inopportuno in quel momento di grande dolore, le sue labbra si curvarono in un lieve e amaro sorriso che rivelò i denti.
«Allora», disse, «stai diventando superstiziosa, come i contadini?»
«Soltanto perché ho letto il suo diario», risposi, con le labbra contorte per il disgusto. «Solo perché so che cosa — chi — l’ha uccisa. Soltanto perché so che tu hai rotto il Patto».
Mentre parlavo, il suo sorriso svanì, ma i denti mortali rimasero ancora in vista. Per un momento, mi guardò con una rabbia talmente infinita che provai un’ondata di vertiginoso terrore.
«Tu hai saputo più di quello che le pagine di Zsuzsanna avrebbero potuto rivelare», disse lentamente, fissandomi con il suo sguardo magnetico. «Chi ti ha parlato? Chi?».
Improvvisamente timorosa per Dunya, risposi con il silenzio.
Parlò ancora, con il languore letale di un serpente che si attorciglia per colpire.
«Solo gli ignoranti», disse, con lo sguardo ancora puntato su di me, «credono di sapere tutto. Tu non sei in grado di capire. Come osi parlare a me del Patto, di qualcosa che io venero, di qualcosa di cui non sai niente? Io amo Zsuzsanna…!».
Conscia di Arkady che piangeva oltre la porta aperta, abbassai la voce in un bisbiglio appassionato.
«Questo non è amore. È un’azione spregevole. Orgoglio. Malvagità mostruosa…».
Lui abbassò la sua voce ad un sibilo che sembrò quello di una vipera infuriata.
«Non spetta a te giudicare, capire!».
All’improvviso la sua furia si calmò e i suoi occhi assunsero quell’irresistibile amorevolezza, e sorrise dolcemente, tanto dolcemente quanto Zsuzsanna quando mi aveva supplicato di baciarla.
«Nel passato, avrei decretato soltanto un tipo di destino per quella donna che avesse osato insultarmi», disse piano, studiandomi dalla testa ai piedi con quello sguardo intento, a cui nulla sfuggiva. «Ma tu sei una bella donna. Quegli occhi… sono come zaffiri incastonati nell’oro. Forse un giorno potrai essere persuasa a comprendere. Sono stato solo, ho negato a me stesso della compagnia per troppo tempo. Troppo tempo…».
Allungò la mano… piano, con il dorso delle dita chiuse, come per toccarmi teneramente la guancia, ma la croce alla gola lo tratteneva. Istintivamente mi ritrassi, e indietreggiai finché la mia schiena premette contro il muro. Lui mi seguì, finché la sua mano rimase sospesa a qualche centimetro dal mio volto e accarezzò l’aria sopra la mia pelle. Tremai, mentre lui l’abbassava con tenerezza, indugiando, come per accarezzarmi la guancia, la curva del mento, la linea del collo.
Per un orribile istante, mi trovai a fissare nei suoi occhi, dimenticando tutto il dolore, tutta la ripugnanza, pensando a nient’altro che alla loro raffinata bellezza verde scuro, all’eccitazione — Dio mi perdoni — che avevo provato mentre leggevo il diario di Zsuzsanna, all’intenso piacere che lei aveva provato, a come avrei potuto provare quel piacere e ancora di più, se mi fossi semplicemente strappata la croce dal collo e l’avessi attirato a me in quell’oscuro corridoio e avessi sentito i suoi denti penetrare profondamente nella mia carne…
Alzai una mano alla gola e la chiusi sulla croce.
Mentre così facevo, il bambino dentro di me si mosse. Mi ripresi e provai un’ondata di ripugnanza più grande di qualunque altra avessi mai sentito e gridai:
«Non lo permetterò mai! Piuttosto morirei!».
Sorrise malignamente e aprì la bocca per parlare, ma io non glielo permisi. Tremavo mentre parlavo, ma di rabbia, non di paura. L’odio e l’amore mi diedero il coraggio di dire la verità.
«Io non resterò», dissi, abbassando la voce tremante, ancora una volta consapevole del mio addolorato marito nella stanza vicina.
«Né permetterò ad Arkady di restare ed essere ingannato. Tu lo hai ipnotizzato in qualche modo per farlo restare qui, per farti amare da lui, ma non hai alcun potere su di me!».
«Non esserne tanto sicura, mia bella Mary», disse, ma ciò fu interamente dovuto alla mia immaginazione, poiché le sue labbra non si mossero. Abbassò quindi la mano ma, invece di indietreggiare, si chinò in avanti, con fare minaccioso, finché quegli occhi verdi apparvero grandi nel mio campo visivo mentre bisbigliava, con lo stesso orribile sorriso lascivo che aveva visto per la prima volta al pomana: «Allora per il tuo bene e per quello di tuo figlio, ti consiglierei di fare attenzione ai lupi».
Se ne andò. Non riuscii a dire nulla, a fare nulla se non appoggiarmi tremante contro il muro nel corridoio e ascoltare il pianto afflitto di Arkady.
Mio marito si rifiuta di lasciare il corpo di sua sorella. Stanotte, dice Dunya, è al sicuro; Zsuzsanna non si rialzerà finché non sarà sepolta. Così ho dato ordine ai domestici di lasciarlo solo, come lui desidera.
Stanotte, Dunya ed io dormiremo nella piccola camera dei bambini e ne abbiamo inghirlandato le finestre con corone di aglio. Non sopporto di restare sola o di trascorrere la notte nella mia camera, pensando al vetro in frantumi dietro alla tenda. Ho la debole speranza che, forse, lui non potrà trovarmi qui, e così ho portato il cuscino e la coperta, il diario e la penna. La presenza di Dunya è un vero conforto.
Terrorizzata come sono, provo uno stranissimo sollievo nel non dubitare più dei racconti dei contadini circa il Patto e lo strigoi. La verità può essere orribile ma, perlomeno, conosco con sicurezza il Male che combatto, e so che non può essere più forte dell’amore che porto a mio marito e al bambino.
La morte di Zsuzsanna non è che un momentaneo trionfo per lui. Non vincerà. Non vincerà.
Capitolo decimo
Il diario di Mary Windham Tsepesh
19 aprile. Arkady è impazzito. Rifiuta di mangiare e di dormire, e non vuole lasciare sua sorella, nonostante il fatto che l’abbiamo sepolta a mezzogiorno.
La notte che Zsuzsanna è morta, è rimasto con il corpo di lei. Io non ho cercato di dissuaderlo, poiché Dunya mi aveva assicurato che non era in pericolo ed io ho creduto che si comportasse secondo un uso transilvano; dopotutto, la notte che arrivammo alla villa, rimase a vegliare il corpo di suo padre.