Ma ieri mattina, era ancora con lei. Dunya venne in camera per riferire che Arkady si rifiutava di lasciare Zsuzsanna sola con i domestici; anche quando le donne vennero per lavarla e quando gli uomini la posero nella bara e la portarono nello studio principale, non la lasciò. Ciò preoccupava Dunya, che mi disse che si era accordata per la liberazione di Zsuzsanna dalla maledizione dello strigoi, una volta che fosse sepolta e tutti avessero lasciato la tomba.
Dopo aver parlato con Dunya, andai nello studio, ma la porta era chiusa a chiave e sprangata e Arkady non sembrava riconoscere la mia voce. Non si avvicinò nemmeno alla porta: urlava soltanto, minacciando di usare la pistola se non fosse stato lasciato solo. Scoraggiata, ritornai nella camera dei bambini e, sebbene non sia stata educata come cattolica, mi sono trovata a pregare davanti al piccolo altarino di San Giorgio eretto lì da Dunya. Il dolore e la tristezza mi lasciarono insolitamente esausta e così, alla fine, caddi in un sonno sgradevole.
Nel tardo pomeriggio fui svegliata da lontani rumori di trambusto. In seguito ho saputo da Dunya che mio marito aveva brandito la pistola in direzione di due donne pagate da Vlad per cantare i tradizionali canti dei morti al cadavere di Zsuzsanna e le aveva cacciate dalla stanza. Il bambino, quel pomeriggio, cominciò a sferrare calci con tanta forza che non potei tornare a dormire, e non riuscii a riposare.
Ieri, prima che il sole tramontasse, Arkady non era ancora emerso dalla veglia. L’approssimarsi della sera risvegliò le mie paure e il mio senso di urgenza; non sopportavo il pensiero di mio marito, solo, accanto a sua sorella, non morta, nell’oscurità. E così, con un’ultima silenziosa supplica a San Giorgio, andai a cercare di persuadere Arkady a ritornare con me nel porto sicuro della camera dei bambini.
Con il mento alzato, le spalle ben dritte per la determinazione, bussai alla porta dello studio. In risposta, ricevetti uno stridulo grido:
«Andate via!».
«Arkady», risposi immediatamente e tirai un respiro, preparandomi a lanciarmi in un discorso razionale riguardo al motivo per cui doveva aprire la porta. Ma, al suono della sua voce, così strana, amara e rotta, emisi invece un singhiozzo, e lentamente mi appoggiai alla porta, sopraffatta dall’orrore per la nostra situazione.
Non riuscivo a trovare la voce; potevo solo piangere. Per alcuni secondi ci fu silenzio, ma poi da dietro la porta arrivò il suono attutito dei passi e lo scricchiolio del catenaccio che veniva tirato. Lentamente, la porta si aprì e, nelle ombre tremolanti, apparve mio marito, con la pistola nella mano destra.
La sua vista mi strinse il cuore. Aveva i capelli arruffati, la barba lunga, con profonde ombre sotto gli occhi afflitti, e sulla tempia destra era apparsa, in quelle ore trascorse da quando l’avevo visto l’ultima volta, un’inequivocabile sottile striscia d’argento tra i suoi folti capelli neri come il carbone… messa lì da Vlad, che ogni giorno sembrava ringiovanire.
«Mary?», chiese tremante, con una voce così infantile, così indifesa e rotta, che mi provocò altre lacrime.
Abbassò appena la pistola e aggrottò la fronte mentre mi scrutava con gli occhi rossi, gonfi, cerchiati di ombre nere. I suoi occhi sono sempre stati, credo, il suo tratto più piacevole: di fatto, la parola “bello” è più appropriata. Come suo “zio” e sua sorella, ha degli occhi che colpiscono, che fanno restare senza fiato: nocciola chiaro, punteggiati di molto verde e circondati da un anello di marrone scuro.
Quegli occhi compassionevoli, belli, erano del tutto perduti, disorientati come quelli di un ragazzino che vaga intontito in una foresta senza fine. Li fissò su di me e io li vidi socchiudersi, li vidi muoversi per l’incertezza mentre cercava nel profondo della sua memoria, tentando di ricordare se mi conosceva veramente, se potevo essere degna di fiducia.
«Sì, caro, sono Mary», dissi con gentilezza, e mi avvicinai di un passo alla soglia.
Lui si irrigidì ma non alzò ancora la pistola e, quando rimasi immobile, in attesa, l’abbassò finché, infine, puntò la canna verso il pavimento, ma non allentò la presa.
Entrai e mi mossi lentamente, con prudenza, accanto a lui, mentre si voltava e ritornava verso la bara al centro della stanza.
All’interno, nessuna lampada era accesa, e gli angoli erano coperti dall’oscurità. L’unica luce proveniva da un grande candelabro solitario, con venti bracci e quasi della mia altezza, che stava sulla parte superiore della bara aperta.
Le venti candele erano tutte accese, e gettavano su Zsuzsanna un tremolante chiarore dorato che le conferiva una bellezza talmente stupefacente da farla apparire irreale come una statua, una magnifica opera d’arte, intesa a rappresentare la quintessenza della bellezza. Nessun essere umano avrebbe potuto mai possedere un tale fascino.
La sua vista mi tolse il respiro, e mi fece alzare la dita alle labbra. Ma, mentre la guardavo, compresi che quell’effetto era dovuto a qualcosa di più che alla luce delle candele; il suo stesso essere sembrava irradiare una luce interna, e la sua pelle possedeva la stessa peculiare qualità di fosforescenza che avevo, per la prima volta, notato nella pelle di Vlad, al pomana. Infatti, essa sembrava, mentre la continuavo a guardare, luccicare di lievi bagliori di pallido, argenteo blu.
La vista di lei era talmente affascinante che dovetti chiudere gli occhi e forzarmi, invece, a guardare mio marito, che si sistemava su una sedia posta accanto alla bara, il posto in cui aveva, apparentemente, trascorso molte delle ultime ore. Anche Arkady guardava Zsuzsanna, in modo così fisso da sembrare in trance e, quando lo chiamai per nome, dapprima piano e poi più forte, non udì, ma continuò a fissare la sorella con la distante e fiacca espressione di uno ipnotizzato.
Allungai la mano per toccargli il braccio. Si girò di scatto e alzò la pistola ancora stretta nella mano destra, come se avesse già dimenticato che mi aveva invitato a entrare. Indietreggiai e lo guardai, finché la paura nei suoi occhi diminuì e fu sostituita ancora una volta dal riconoscimento.
«Arkady», dissi piano e, quando la sua espressione si ravvivò debolmente, mi feci coraggio e lo accarezzai nuovamente sulla spalla. Non ero affatto certa, quando entrai nella stanza, di quello che avrei dovuto dire; sapevo solo che eravamo entrambi giunti ad un punto di estrema disperazione, e così gli parlai dal profondo del cuore.
«Arkady: ho bisogno di riavere mio marito. Ho bisogno del tuo aiuto».
Le mie parole oltrepassarono il velo di disperazione e lo toccarono. Lentamente, poggiò la pistola accanto a sé sul cuscino della sedia e si voltò a guardarmi con occhi che parlavano della sua feroce lotta per emergere dalla sua oscurità interiore.
Ma io vidi in quello sguardo una scintilla dell’uomo che avevo conosciuto e mi rincuorai.
«Vieni a letto, caro», bisbigliai. «Vieni a letto. È ora che entrambi riposiate».
Si passò le dita tra i capelli da poco imbiancati e li strinse, scuotendo la testa; la sua voce aveva un accenno di quell’angoscia che lo aveva portato alla follia.
«Non posso… non oso lasciarla…».
«Non c’è nulla di cui avere timore», dissi per calmarlo. «Possiamo far restare con lei uno dei domestici».
«No!». Si voltò come un serpente per guardarmi. «Di loro dobbiamo fidarci meno di tutti!». Abbassò la voce fino a un mormorio da cospiratore, come se temesse che uno di essi potesse origliare, ma i suoi occhi erano stranamente lucidi. «Una volta ho dato loro fiducia… con il cadavere di papà. Se ti dicessi che cosa gli fecero…». Rabbrividì e scosse di nuovo la testa. «No. Non gliela affiderò».