«Arkady», dissi con fermezza, «tu hai detto di aver visto cose terribili al castello. Bene, io ho visto cose orribili qui. Questa casa non è più sicura ed io ho bisogno di te. E non soltanto io… Anche tuo figlio ha bisogno di te».
Gli misi la mano sul mio ventre e gli feci sentire l’irrequieto bambino. A ciò la sua espressione si addolcì, e per un momento pensai che avrebbe pianto, invece si alzò dalla sedia e mi abbracciò, stringendomi così forte che potevo a malapena respirare.
Ma gli fui grata per quell’abbraccio; calde lacrime mi bagnarono le guance, e lo tenni stretto con una disperazione che faceva il paio con la sua, terrorizzata al pensiero che, se avessi osato lasciarlo andare, la nostra piccola famiglia avrebbe potuto non essere mai più insieme.
«Sono così spaventato», mi bisbigliò all’orecchio. Le nostre guance bagnate erano premute l’una contro l’altra; le lacrime scorrevano giù lungo i nostri volti, ma non potevo dire quali fossero le sue e quali le mie. «Sono assai spaventato che possa capitare qualcosa a te o al bambino».
«Ed io sono spaventata per te», dissi, «a causa di ciò che ti è già successo. Arkady, tu non sei in te; ti sei ammalato per il dolore. Ti ricordi che fosti d’accordo per andare a Vienna, perché la tensione era troppo grande? Dobbiamo farlo immediatamente, prima che qualche altro male ci possa accadere».
«Sì…», mormorò con aria assente. «Dovremmo andare». E poi sentii il suo corpo teso contro il mio e un muscolo nella sua mascella cominciò a contrarsi involontariamente. «Ma non la posso lasciare. Non ancora…».
Mi irrigidii e mi scostai dall’abbraccio, sebbene cingessimo ancora con le braccia l’uno la vita dell’altra. Decisi di tentare di portarlo con delicatezza alla verità su Vlad.
«Arkady… vedi come è bella Zsuzsanna?».
Sospirò e, sciogliendosi dall’abbraccio, si voltò verso la bara per guardarla ancora una volta con doloroso apprezzamento.
«Sì… sì, è bella…».
Rimase senza respiro, trattenendo le lacrime.
Io rimasi accanto a lui e gli misi una mano sulla spalla per confortarlo.
«Più bella di quanto sia mai stata in vita, ma… hai dimenticato che la sua spina dorsale era curva e la sua gamba non sviluppata?».
Lui guardò all’improvviso le ombre che danzavano sull’alto soffitto, come se non volesse affrontare il ricordo, come se avesse paura di ciò che la sua contemplazione potesse rivelare. Il respiro gli diventò più rapido e le spalle cominciarono ad alzarsi e abbassarsi, come se stesse lottando per reprimere la conclusione che la ragione avrebbe potuto portare.
«No», disse amaramente. «No, non l’ho dimenticato».
Indicai il corpo nella bara.
«Guardala, Arkady. Guardala! Puoi vedere che non ha l’aspetto che un morto dovrebbe avere dopo che è passato un giorno. La sua schiena è perfettamente diritta; è più alta. E guarda le sue gambe!».
Controvoglia, abbassò lo sguardo sul cadavere di sua sorella e sulle due gambe perfette, ben formate, sotto il vestito.
«Adesso sono entrambe perfette», continuai. «Che cosa potrebbe causare un tale miracolo?».
Si strinse la fronte.
«Follia! La stessa follia che mi ha condotto a vedere Stefan, a vedere i lupi risparmiare la mia vita; che fa sì che lo zio divenga ogni giorno più giovane! Ed io ho fatto questo a te, Mary, alla persona che amo di più in tutto il mondo…». La sua voce si spezzò. «Non riesco a sopportare di vedere che ti accada…».
Udii il furore nella sua voce, ma anche l’agitazione di una rivelazione non desiderata; sentii che non potevo permettermi di arrendermi. Gentilmente ma fermamente, dissi:
«Arkady, sono perfettamente sana di mente; sono la stessa Mary che hai sempre conosciuto e ti dico, ora, che non sei pazzo per aver visto quelle cose. Zsuzsanna, adesso, è perfetta perché è uno strigoi, è una dei morti viventi». Esitai. «Non hai visto Vlad, quando è venuto per lei? I suoi capelli sono neri, mentre prima erano bianchi: sembra più giovane di trent’anni. Come lo spieghi?».
Il suo sguardo corse direttamente alla piccola croce d’oro, che io avevo, senza pensare, dimenticato di far scivolare sotto il vestito prima di venire a parlare con lui. I suoi occhi si strinsero alla sua vista ed egli alzò lo sguardo al mio e, con uno stupore pieno di orrore bisbigliò:
«Buon Dio, sei come loro adesso, vero? Ti sei fatta imbrogliare come loro! Non vorresti altro che me ne andassi a dormire, così potresti aiutarli a violare il suo corpo, proprio come fecero con quello di papà!».
Lo sguardo di offeso tradimento sul suo viso mi spezzò il cuore. Chiusi strettamente le dita della mano sinistra intorno al crocifisso, finché questo non mi tagliò la carne e gridai nel pensare mio marito così irretito dall’incantesimo del Vampiro da essere, per me, perso per sempre; nel pensare che il sangue che scorreva nelle sue vene — e nelle vene di nostro figlio — ci legasse irrevocabilmente, eternamente, al mostro.
Pensavo che quei legami di sangue non avrebbero potuto mai essere allentati e che mio figlio era condannato a percorrere la strada dei suoi infelici antenati.
Silenziosamente, mi appellai a San Giorgio, affinché brandisse la sua spada lucente e, con un colpo mortale, recidesse quei legami del colore del sangue.
La mia disperazione si dovette vedere chiaramente poiché, alla sua vista, Arkady rimase senza fiato e tutta la rabbia sembrò abbandonarlo improvvisamente. Cedette per la stanchezza e con una voce bassa, piena di tristezza, mi chiese:
«Hai un’idea di cosa significhi dire che queste cose sono vere?». La sua voce divenne un bisbiglio. «Povera Mary. Mia cara, ho contaminato la persona che amo di più, con il male che è qui. Ho portato te e nostro figlio in un nido di vipere. È tutto vero… lo zio è un pazzo e un assassino, proprio come mio padre, suo complice, e io sono destinato a diventare come loro…». Nascose il viso tra le mani, sopraffatto dalla stessa visione di generazioni macchiate di sangue che avevo avuto io e mormorò: «Figlio mio! Povero figlio mio!».
Il suo tormento era così acuto che anch’io lo sentii, e potei soltanto fissarlo dolorosamente mentre restavamo ammutoliti per l’estrema crudeltà della verità. Attesi, con la speranza che sarebbe ritornato in sé, che avrei potuto convincerlo a fuggire da questo posto con me.
«Tu non sei un assassino», dissi, con la voce tremante. «Ma Vlad è uno strigoi e ti controlla. Permettimi di portarti il diario di Zsuzsanna. Lei ha scritto come egli bevve il suo sangue…».
Ma io non avevo trascorso la mia infanzia educata ad amare e riverire Vlad, e il sangue del Vampiro non scorreva nelle mie vene. Era più facile per me, un’estranea dalla forte volontà, resistere all’ipnotismo di Vlad e accettare la verità, di quanto lo fosse per il mio povero marito.
Arkady alzò il viso e disse rauco:
«Oh, Mary… Mary… Prova soltanto che lei è pazza quanto me. Vai. Vai adesso! Non riesco a sopportarlo oltre!».
Quando esitai e aprii la bocca per contraddirlo, alzò la voce:
«Vattene!», m’ingiunse.
Poi ritornò alla sedia accanto alla bara, ritrovò la pistola, e riprese il suo posto come guardiano del cadavere di Zsuzsanna, inconsapevole che, facendo così, non serviva né la ragione, né la lealtà, né l’amore, ma il più malvagio degli scopi.
Penso che suo “zio” — o, con più probabilità, suo nonno, eliminando due dozzine di antenati — abbia più influenza su di lui di quanto sapremo mai. In quel momento, vidi gli occhi di Vlad nell’oscurità ondeggiante, e udii nella mente la sua risata di scherno.
«Così, pensavate che avrei potuto tanto facilmente essere giocato, vero? Così pensavate che Zsuzsanna avrebbe potuto essere vostra per farne quello che volevate?».
L’espressione di Arkady era dura, irraggiungibile, mentre voltava il suo profilo verso di me e sedeva guardando in basso, addolorato, il corpo voluttuoso di sua sorella, raggiante nella tremolante luce delle candele. Sapevo che non sarebbe stato bene discutere con lui in quel momento, e così me ne andai, abbattuta, sconfitta, ma dicendomi che la stanchezza certamente avrebbe avuto la meglio nel prosieguo della notte.