Mostro! Mostro! Un giorno ti farò pagare per quello che hai fatto a lei e alla sorella di Arkady!
Vedo negli occhi di Dunya che lei, contrariamente a Zsuzsanna, è del tutto ignara di ciò che le sta accadendo; la mia più cara amica è divenuta il mio nemico più pericoloso, e lei nemmeno lo sa. Per quanto tempo ha usato questa povera, innocente ragazza? È accaduto di recente o è stato da quando ha dormito nella stanza di Zsuzsanna? È lei che va da lui nella notte, quando dormiamo? È sempre stata la sua spia?
Non riesco a persuadermi a dirglielo, a lacerare il suo cuore. Dunya, mia leale Dunya! Lo strigoi ha vinto. Tu ed io siamo entrambe perdute…
Ancora dolore. Non riesco più a scrivere. Che Dio ci aiuti.
Capitolo dodicesimo
Il diario di Arkady Tsepesh
21 aprile, aggiunta su una pergamena separata. 1 a.m. Siedo in ascolto delle grida di mia moglie mentre scrivo un avvertimento per il figlio che sta nascendo. Sono passati dei giorni da quando scrissi per l’ultima volta in questo diario e, nel periodo intercorso, ho sperimentato più dolore e orrore di quanto le parole possano esprimere. Zsuzsanna è morta ed è stata deposta nella tomba di famiglia. Di quel periodo ricordo soltanto il momento in cui è morta tra le mie braccia, e i suoi begli occhi neri fissi in quelli di suo zio.
L’intero evento è confuso; la mia volontà è stata lentamente spezzata, inesorabilmente, prima dalle morti di mio padre e di Jeffries, poi da quella di mia sorella. Gli artigli del controllo hanno frantumato la mia mente mentre mi trovavo tre giorni fa in questa stessa stanza, ma questa volta essi non abbandoneranno la presa.
Oh, ma quello che ho visto questa notte supera ogni precedente orrore. Ciò che ho visto mi ha talmente scioccato fin nel profondo della mia stessa anima che sono emerso all’altro capo della follia e sono guarito.
Guarito… e, per la prima volta nella mia vita, non sono più una marionetta.
Voglio registrare, quindi, ciò che riesco a ricordare con chiarezza. Ho espresso qui tutto quello che ricordo della morte di mia sorella; apparentemente, sono stato sveglio per tre giorni senza mangiare, e sono rimasto nella tomba con Zsuzsa, ma di ciò ho soltanto dei fuggevoli ricordi.
Mia moglie è venuta da me meno di un’ora prima del tramonto, il giorno che Zsuzsanna è stata sepolta. Questo lo ricordo bene per le emozioni che mi ha provocato e per quello che seguì.
Mi ricordo che sedevo nella tomba sul freddo pavimento di marmo accanto alla bara chiusa di mia sorella, con la schiena appoggiata contro il muro freddo, i gomiti sulle ginocchia ed entrambe le mani che tenevano il revolver. Ero in un bizzarro stato di coscienza, né di veglia né di sonno ma, in un certo senso, stavo tra i due, dove i sogni sembrano liberi di entrare e di mescolarsi alla realtà.
Mi trovavo all’interno della costruzione senza finestre dal mezzogiorno, e avevo lasciato aperta la grande porta di pietra in modo che potessi vedere meglio l’avvicinarsi di un intruso. La porta si apriva su un’anticamera che conteneva dozzine di vecchie bare, e uno stretto corridoio conduceva a una seconda stanza più grande, piena di un numero ancora maggiore di defunti, alla quale era stata aggiunta la nicchia dove i miei parenti più prossimi erano stati seppelliti. Soltanto una piccola lama di luce penetrava dalla stanza più esterna nella nicchia, lasciandola scura e in ombra, ma i miei occhi si erano abituati alla mancanza di luce chiara, e io potevo rendermi conto dall’oscurità crescente che il giorno stava morendo.
Caddi in uno strano sogno ad occhi aperti in cui immaginai che mio padre, mia madre e Stefan giacessero perfettamente conservati sopra alle loro bare. Mentre guardavo, essi si alzarono a sedere con la lenta e silenziosa dignità dei morti, aprirono gli occhi, e mi guardarono con un’espressione di benevola preoccupazione.
Ero estremamente sorpreso di vedere mia madre — e molto chiaramente — poiché non avevo alcun ricordo di lei, solo una vaga immagine mentale basata su un piccolo ritratto a olio che aveva mio padre, dipinto alcuni anni prima che si sposassero. Sapevo dal ritratto che i suoi capelli erano stati chiari ma, quando la vidi seduta sopra la bara, fui molto meravigliato di vedere quanto rassomigliasse a mia moglie.
Oh, aveva l’ossatura più grossa, e così la struttura e il seno, con la mascella quadrata e il viso più largo, ma la rassomiglianza era innegabile, specialmente negli occhi. Portava un vestito di seta bianca scollato con le maniche corte a sbuffo e un largo nastro blu sotto al seno, nell’impudico stile impero che metteva in risalto le forme, che era stato in voga più di venti anni prima, quando le donne inumidivano i vestiti per farli aderire meglio. I suoi lunghi capelli biondi a riccioli erano legati dietro con altro nastro blu, ma lasciati cadere liberamente come quelli di una ragazza.
Sembrava così giovane, anche più giovane di Mary e, guardandomi con degli occhi castani fiduciosi e teneri, mi sorrise in un modo che fece scomparire tutto il mio dolore, la follia e l’angoscia.
Accanto a lei sedeva mio padre, e la mia gola si strinse nel vederlo giovane, forte, e non piegato dal dolore.
E poi, tra loro, si alzò Stefan, un bambino sottile, con le ginocchia ossute e gli occhi ridenti, e in quelle orbite luccicanti io vidi un amore, una tenerezza che era stata assente dagli occhi del moroi che mi aveva condotto nella foresta, il moroi che, senza dubbio, era stato un malevolo impostore.
Alla loro vista mi riprese il familiare dolore che mi stringeva il cranio. Gridai e mi tenni la testa tra le mani, premendo forte come per cancellare la coscienza.
Eppure, sorprendentemente, il dolore non fece sì che quelle immagini scomparissero. La mia famiglia rimase, e mi indirizzò degli affezionati sorrisi. Ansimai, a disagio per il dolore, ma la paura cominciò a dissiparsi alla loro presenza e, mentre la paura scompariva, così faceva il dolore, solo un po’, ma abbastanza per permettermi di aprire gli occhi e di guardarli.
La loro apparizione non provocò in me trepidazione, come aveva fatto un tempo quella di Stefan, poiché essi emanavano una sollecitudine e un amore così intensi — tutti per me — che cominciai a singhiozzare per pura meraviglia e gratitudine.
Nelle settimane passate, ho visto poco bene e fin troppo male, ma quando la mia famiglia mi apparve intorno, sentii che era un segno che il bene avrebbe, dopotutto, trionfato, e che il male che aveva insozzato la foresta con i teschi sarebbe stato sconfitto, e giustizia sarebbe stata fatta. Sentii… sentii (anche ora è difficile parlarne senza uno sgorgare di emozioni, tanto la sensazione era forte) che, sebbene fossero morti, i membri della mia famiglia mi circondavano con le braccia cercando di darmi forza. Più di ogni altra cosa, mia madre desiderava sapessi che l’amore avrebbe vinto ogni disperazione, e che tutto il dolore e la confusione sarebbero svanite se avessi ascoltato soltanto il mio cuore.
Io lo credo anche ora, con tutto il mio essere. Se nel mondo esiste il Male assoluto, allora, certamente, ci deve essere il Bene assoluto, che si è rivelato a me attraverso l’amore della mia cara, defunta famiglia; un Bene abbastanza potente da irrompere attraverso i lacci mentali che mi tenevano schiavo.
Lacrime di gioia mi scendevano lungo il viso e, nel mezzo di questa stupefacente rivelazione, udii dei passi all’entrata della tomba. Ma ero troppo sopraffatto dall’emozione — dall’amore — per essere spaventato e per alzare il revolver.
E quando udii la voce di mia moglie, allo stesso tempo spaventata e decisa, che mi chiamava piano per nome, seppi che era un segno. Allora compresi il messaggio della mia famiglia: che ero perduto, reso schiavo dal dolore e dalla confusione, ma che l’amore di Mary per me — e il mio per lei — potevano dissolvere il potere che il Vampiro aveva sulla nostra famiglia e salvare nostro figlio.