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Così rimasi sul banco di duro legno, perduto nel dolore per mio padre, dove generazioni di Tsepesh si erano seduti prima di me, vegliando i cari che avevano perduto. Dopo alcune ore, mi assopii e caddi di nuovo nel sogno angoscioso di me stesso bambino, che correvo dietro a Stefan attraverso la foresta.

Fui svegliato all’improvviso dal suono di un ululato spaventoso, spiacevolmente vicino. Nello stesso istante, la pesante porta di legno si spalancò con un gemito e vidi, per la prima volta in tanti anni, il mio prozio Vlad.

(Caro figliolo, il tuo prozio Vlad, che, per il tempo in cui sarai abbastanza grande da poter leggere questo scritto, sarà passato a miglior vita, era un solitario notevolmente eccentrico. Io sospetto che ciò fosse dovuto a un leggero caso di follia della famiglia.

Vlad soffriva di agorafobia, raramente lasciava il castello, e temeva i contatti regolari con chiunque, tranne quelli con mio padre. Per questa ragione mio padre si occupava di tutte le faccende che avessero a che fare con la proprietà terriera, e della maggior parte delle questioni con i domestici. Eppure Vlad era oltremodo generoso con noi. Ci faceva visita durante levacanze e i compleanni, facendo in queste occasioni la parte dello zio gentile e interessato, e ci ricopriva di doni. Pagò non solo per l’istruzione di mio padre, ma anche per la mia, e salvò la vita di Zsuzsanna quando si ammalò, facendo venire da Vienna i migliori medici.

Sfortunatamente, le eccentricità del mio prozio fecero nascere molte dicerie tra i domestici e tra i superstiziosi contadini della zona. Queste dicerie hanno causato molti sospetti verso la nostra famiglia da parte della gente di campagna. Sono certo che anche tu ne sentirai parlare).

Fu evidente che entrambi fummo sorpresi dalla presenza l’uno dell’altro. Lui indugiò un momento sull’entrata; era una figura alta, dai lineamenti tirati, dal portamento fiero come un leone e vestita a lutto. Devo ammettere che, nel corso degli anni, avevo dimenticato la stranezza e la severità del suo aspetto, e ne fui dapprima intimidito, come lo ero stato tanto spesso da bambino. Era pallido come uno spettro (come si addice a chi vive recluso), così pallido che era impossibile dire dove finiva la sua pelle e cominciava la folta criniera d’argento che aveva sulla testa. I suoi lunghi baffi pendenti e le scompigliate e spesse sopracciglia erano dello stesso colore. Questo pallore eccezionale era sottolineato dal mantello nero e dagli scuri occhi verdi… occhi magnetici, antichi, del colore della foresta, pieni di agile intelligenza.

Per un momento, mi sentii allo stesso tempo attirato e respinto dalla loro vista, ma poi essi si addolcirono all’improvviso nel riconoscermi, si empirono di straordinaria gentilezza, e lui si trasformò, da spettro che suscitava paura, nello zio affettuoso che ricordavo.

Tirai un sospiro quando compresi che la mia infantile preghiera era stata accolta. Avevo dimenticato la straordinaria somiglianza familiare, ma ora guardavo nuovamente negli occhi di mio padre. Poi mi parlò, ed io udii la voce di mio padre.

«Arkady», disse, «il cui nome significa Paradiso. Che bello rivederti, ma in che triste circostanza ci incontriamo».

«Vlad», dissi, alzandomi. «Caro zio».

Camminammo l’uno verso l’altro e ci stringemmo le mani, poi ci scambiammo il tradizionale bacio su entrambe le guance, un’usanza a cui non ero più abituato dopo gli anni trascorsi a Londra. Doveva essere piuttosto vecchio poiché, per quanto potessi tornare indietro con i ricordi, i suoi capelli erano sempre stati di un bianco argenteo, e si muoveva con la cautela dell’età, ma la sua presa, sebbene fredda, era forte, e contraddiceva la fragile apparenza. Grazie a qualche miracolo, o per difetto della mia memoria, non era invecchiato.

Ci tenemmo le mani e ci guardammo negli occhi per un po’ di tempo. Ebbi la sensazione di guardare profondamente nelle anime di tutti i miei antenati, ora mescolati in un’unica carne.

«Mi spiace disturbarti», disse. «Non mi ero aspettato di trovarti qui».

«Non è un disturbo».

«E come sta la tua cara e giovane moglie?»

«Bene. Sta riposando».

«Ciò è bene», disse gravemente. «Dobbiamo fare il possibile per conservare la sua preziosa salute, per amore del bambino in arrivo». Diede un’occhiata in giro nella cappella immobile, vuota. «Ma dove sono le donne? Quelle che avevo pagato per cantare i Bacete

«Sono andate via», dissi. «Le ho mandate via io. La colpa è tutta mia. Spero che non ti arrabbierai, ma desideravo il silenzio».

«È naturale», rispose, con grande comprensione, e agitò la mano per chiudere l’argomento. «Ma come sei cambiato dall’ultima volta che ti ho visto; sei diventato un uomo. Più che mai, ora assomigli a tuo padre». Indietreggiò di un passo per studiarmi meglio e tirò un respiro breve, doloroso. «È vero. Hai il suo viso, i suoi capelli…». Ciò fu detto con approvazione, poi (di sicuro l’ho immaginato) il suo tono divenne leggermente deluso. «Ma i tuoi occhi hanno qualcosa di tua madre».

Mi fissò negli occhi per un po’, quindi si voltò verso la bara. Uno sguardo di dolore gli attraversò la faccia, mentre sospirava:

«Ed ecco qui il nostro Petru…».

«Sì», mormorai, e ritornai al banco per lasciarlo al suo momento di dolore.

Si portò una mano al viso mentre chiudeva gli occhi e disse, con un dolore così profondo che mi vennero le lacrime agli occhi:

«C’è qualcosa di più orribile della morte? Più terribile del capire che, per noi, lui è perduto per sempre?».

Poi abbassò il braccio e si avvicinò alla bara con rispetto; prese la mano di mio padre e con una voce bassa, appassionata, esclamò:

«Ah, Petru! Ormai la tua carne è divenuta così fredda!». Quindi si chinò, sollevando la mano alle labbra e la baciò, dicendo: «Alle volte sento di aver camminato troppo a lungo su questa terra; troppe volte ho visto le persone care morire, troppe volte ho baciato un caro volto defunto».

Cercò di rimettere la mano di papà al suo posto, con una certa dignità ma, alla fine, il dolore lo sopraffece, e si accasciò per posare la guancia sul petto di mio padre, come avevo fatto io, bisbigliando, nel frattempo:

«Petru! Petru! Il mio unico vero amico…».

E pianse. Chiusi gli occhi e mi voltai, perché essere testimone della sua sofferenza significava aumentare la mia; sembrava così fragile e patetico, mentre si chinava sulla bara, che non potei trattenermi dal pensare che presto, fin troppo presto, lui stesso sarebbe stato disteso nella sua.

Quando, alla fine, si riprese e si alzò, rimase a fissare mio padre e parlò, con tale forte e appassionata convinzione che la sua voce riecheggiò sulle fredde pareti di pietra, ed io capii che superava il confine della morte, tanto che mio padre e tutti i miei antenati lo potevano udire:

«Io ti giuro, nel nome degli Tsepesh, che la tua fedeltà non verrà dimenticata».

Detto ciò, si avvicinò, si sedette vicino a me e vegliammo in silenzio. Subito dopo, i lupi cominciarono a ululare ancora, e così vicino che non riuscii a trattenermi dal guardare ansiosamente fuori della finestra scura. Lo zio vide e sorrise debolmente, con fare rassicurante.

«Non avere timore, Arkady. Non ti faranno del male».

Ma il suono degli ululati penetrò profondamente nella mia mente e, dopo un po’ di tempo, caddi di nuovo nel sogno di Stefan e di Shepherd, nell’incubo che si svolgeva attraverso una foresta senza fine. Corsi per ore e ore, gridando il nome di Stefan, mentre i lupi ringhiavano in lontananza; soltanto allora arrivai alla mia orribile meta per vedere il corpo sanguinante di mio fratello, e Shepherd, che sollevava il suo muso gocciolante di rosso vivo per guardarmi…

All’improvviso mio padre si mise tra noi due, con la schiena rivolta fiduciosamente verso la bestia. Mi afferrò il polso e girò la tenera parte interna del mio braccio verso l’esterno. Non feci resistenza; quello era mio padre, che io amavo.