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Pieno di speranza, posai la pistola sul pavimento accanto alla bara di Zsuzsanna e, con fatica, mi rialzai in piedi per dirigermi verso la fonte di quel suono delizioso.

Ma avevo le vertigini, ed ero troppo debole per rimanere in piedi. Ricaddi sul pavimento proprio mentre la sagoma della mia bella moglie entrava nella nicchia. Un solitario raggio di sole le brillava sul viso, rivelando gli occhi che luccicavano di lacrime.

«Arkady?», disse, con voce alta e incerta; con gli occhi disabituati all’oscurità, esitò, senza vedere, a pochi piedi da me, e poi avanzò con passo esitante. Una seconda striscia di sole, che si affievoliva, cadde più in basso, sul suo seno, e brillò tanto da accecarmi, sulla piccola croce d’oro e sulla caraffa di cristallo sfaccettato che aveva tra le mani.

«Qui», risposi, e la guardai mentre scrutava nelle ombre e mi vedeva.

Suppongo che la mia voce suonasse debole e penosa, poiché lei disse: «Oh, Arkady», con tanta pena e angoscia che mi sentii pieno d’amore per lei. Con grande difficoltà a causa del suo ventre ingrossato, posò la caraffa sul pavimento accanto a noi, poi si sedette con fatica. Io cercai nuovamente di alzarmi, e riuscii a andarle incontro e ad aiutarla goffamente a sedersi.

Nel frattempo, la mia defunta famiglia era svanita (sebbene il terribile dolore alla testa fosse rimasto) cosicché noi rimanemmo circondati soltanto da bare silenziose, ma io sentii il loro amore ancora intorno a me. E così circondai mia moglie con le braccia e mi strinsi a lei e al bambino.

Lei pianse silenziosamente per un po’, senza fare rumore, ma io sentii le sue lacrime calde sul collo. Dopo un po’ sollevò il viso e disse con una voce calma ma stanca come la mia:

«Sono stata così in pensiero per te. Se continui in questo modo, ti ammalerai. Per favore… vieni a casa con me».

Il dolore mi afferrò ancora così fortemente che gemetti, con suo sgomento e preoccupazione. Ma, per quanto la amassi in quel momento, per quanto fossi disposto a dare la mia vita per renderla felice… non potei aderire alla sua richiesta. Perché? In quel momento mi dissi che era per il dolore; pensai che non avevo fiducia in V. né in nessun altro per proteggere il corpo di Zsuzsa. Pensai che, se le fosse accaduto qualcosa, non avrei potuto perdonarmelo. Eppure… la verità era che rimasi perché qualche forza esterna lo pretendeva, mi obbligava a restare; perché gli artigli invisibili ancora stringevano il mio povero cervello confuso.

Ora capisco.

Ma, in quel momento, non stetti ad esaminare le mie ragioni. Accarezzai soltanto i capelli d’oro di Mary e mormorai:

«Mia cara, non me ne posso andare, ma se tu vuoi, puoi restare qui con me. Io penserò alla sicurezza di entrambi».

Lei si irrigidì nelle mie braccia.

«Ma non hai mangiato o bevuto per due giorni».

«Ilona mi ha portato del thè nello studio», dissi, ma quello era stato… un giorno prima? Due? Non riuscivo più a giudicare il tempo. Non sentivo la fame, ma la mia sete era grande, e io guardavo con desiderio la caraffa sul pavimento.

Mary sembrò leggere nei miei pensieri. Prese la caraffa, tolse il bicchiere che era poggiato capovolto sul tappo e vi versò un po’ del contenuto.

«Sapevo che saresti stato terribilmente assetato», disse, con un tono carezzevole, persuasivo. «Ti ho portato del thè con un po’ di brandy alla prugna dentro; è ancora caldo, per mandare via il freddo della sera».

La fragranza floreale, forte, del thè e dello slivovitz era celestiale, tentatrice, come gli alti toni della melodia del liquido che riempiva il bicchiere. Mi resi conto, allora, di quanto la mia gola arsa mi dolesse, di come la lingua secca aderisse con dolore all’interno rasposo delle mie guance. Presi il bicchiere dalla mano di mia moglie e bevvi con avidità, scolandolo in tre sorsi, senza curarmi del thè che mi colava per il mento.

«Ancora?», chiese, e riempì di nuovo il bicchiere prima che potessi rispondere. Cominciai a bere di nuovo, avidamente… poi, esitai dopo il secondo sorso, messo in allerta dall’istinto. Allontanai il bicchiere, lo fissai, poi fissai Mary.

La mia moglie connivente. Il mio amoroso Giuda.

Inghiottii e feci aderire la lingua contro il palato della mia bocca chiusa, assaporando criticamente: sì, c’era il gusto di fiori e terra del thè e il pizzico del brandy… ma c’era anche un altro componente, debole ma, nello stesso tempo, familiare.

Il gusto amaro dell’oppio.

Avrei dovuto arrabbiarmi, gridare contro di lei, e rimproverarla; scagliare il bicchiere contro il muro di marmo e vederlo frantumarsi in mille pezzi, ma il ricordo dell’amore per la mia antica famiglia e per la mia famiglia che ancora doveva nascere, fermò la mia mano. Posai il bicchiere e dissi, con tristezza:

«Tu mi hai tradito».

Una lama di sole rosso, morente, brillava alle sue spalle, lasciando in ombra i suoi lineamenti ma, anche nell’oscurità, vidi la determinazione nella fermezza delle spalle, nel mento alzato.

«Per amore», disse. «Per salvare te e il bambino. Arkady, vieni con me».

«Non posso», risposi, e lo dissi con un singhiozzo. «Non capisci?».

Mentre parlavo, si alzò in piedi, poi guardò in basso verso di me. La sua voce era estremamente stanca, estremamente decisa.

«Sì. Sì, capisco. Lui ti controlla… ma non lo farà ancora a lungo».

E se ne andò senza un’altra parola, uscendo nella debole luce del sole con l’espressione ferma di qualcuno che è risoluto a vincere. Sapevo che avrebbe soltanto atteso quel poco tempo necessario al laudano per fare il suo effetto, e poi sarebbe ritornata.

Ma l’istante era passato, e allora diedi sfogo a una furia irragionevole.

Come osava essere tanto impudente circa il suo piano? Poiché sapevo che lei intendeva farmi cadere preda del laudano nel mio stato di debolezza, e poi con l’aiuto di complici mi avrebbe portato via. E cosa avrebbero fatto alla povera Zsuzsa, una volta che fossi stato opportunamente tolto di mezzo?

Mi alzai in piedi, afferrai la caraffa e il bicchiere, e lo scagliai alla cieca, poi mi voltai, dando le spalle alla tintinnante pioggia di schegge per cadere in ginocchio, chinandomi in avanti finché la mia fronte non si fermò contro il freddo marmo. Rimasi così, in uno stato di estrema disperazione e confusione, allo stesso tempo innamorato di mia moglie e pieno di irragionevole rabbia verso di lei.

Mentre stavo lì, rannicchiato, il sole tramontò, e le ombre si allungarono, poi si scolorirono completamente nel buio. Ben presto l’oppio cominciò ad abbassare il suo grigio velo sulle mie facoltà e il sonno a minacciarmi. Lottai contro di esso, cercai di concentrare la mia attenzione vagante sui rumori all’esterno della tomba, in ascolto degli intrusi che, presto, sarebbero certamente venuti. Ma caddi in un altro stato a metà tra la veglia e il sonno, con il viso ancora premuto contro il pavimento, le mani sugli occhi chiusi. Sentii ancora gli artigli penetrare nel mio cervello ma, questa volta, mi arresi serenamente e non lottai.

L’oscurità intorno a me riempiva tutto di una brillantezza soprannaturale e allora abbassai le mani per vedere gli occhi verdi dello zio, accesi di un’interna incandescenza. Ma il bordo scuro della sua forma restava invisibile: soltanto gli occhi apparivano, sebbene lo udissi parlare con chiarezza.

«Sii forte, Arkady. Stai sveglio soltanto un altro po’, e tutto andrà bene».

La sua voce era musicale, rasserenante, piacevole a sentirsi, e presto mi calmai. Ma, nonostante la sua insistenza, caddi dopo qualche minuto in un profondo sonno. Per quanto tempo abbia dormito non lo so, ma fui svegliato un po’ di tempo dopo, quando il corridoio si accese con il lontano e giallo chiarore di una lanterna e dei passi riecheggiarono all’entrata della tomba, seguiti dal ringhiare di un lupo e dalle grida d’orrore di un uomo.