Vacillando mi rimisi in piedi e annaspai nell’ombra in cerca del revolver: lo trovai sul pavimento freddo, poi corsi in direzione del trambusto.
Appena dentro l’entrata aperta dell’anticamera, c’era, da un lato, la lanterna, il cui olio si era versato in una pozza sul marmo e aveva preso fuoco. Guardai alla luce di quella piccola fiamma mentre un grosso lupo grigio spingeva il muso tra braccia che si muovevano convulse, poi affondava i denti nella gola di un uomo, e lo scuoteva come un terrier potrebbe fare con un topo.
Sollevai la pistola, pronto a fare fuoco, ma il movimento rapido, insieme alla mia estrema stanchezza e agli effetti del laudano, mi impediva di distinguere tra la vittima e l’aggressore. Gridai per la frustrazione, incapace di mirare, timoroso di fare fuoco, per paura di uccidere, per sbaglio, l’uomo.
La vittima emise un suono gutturale, soffocato; le braccia gli caddero all’indietro senza vita contro il marmo mentre il lupo si chinava ancora, affondando più in profondità i denti nella carne, nel muscolo e nelle ossa prima di dare un’altra e più poderosa scossa, alzando poi la sua vittima a più di trenta centimetri da terra.
Il lupo lasciò la presa, soddisfatto di aver fatto il suo lavoro, e osservò il suo operato. L’uomo cadde all’indietro, il cranio colpì il marmo con un brutto rumore, e per l’impatto delle grosse gocce di sangue si sparsero sulle mura bianche e sul pavimento.
Mi mancò il respiro quando riconobbi il vecchio giardiniere, Ion. I suoi baffi bianchi erano bagnati di sangue, gli occhi scuri spalancati dal terrore, la bocca aperta lasciava uscire delle bolle della stessa schiuma rossa che fuoriusciva dalla trachea aperta.
Con occhi dorati, chiari e mortali, l’animale mi guardava emettendo un basso ringhio.
Alzai il revolver per sparare. Con mia sorpresa, l’animale si voltò e, invece di attaccare, saltò fuori dalla tomba in direzione del buio della notte. Non lo seguii ma, al contrario, mi inginocchiai accanto al povero Ion, che era già morto. Soltanto allora notai sul pavimento accanto a lui una sacca di stoffa, macchiata di sangue.
L’aprii e all’interno vi trovai il martello, la sega, il palo e l’aglio. La vista mi riempì di un odio selvaggio e cieco; non riuscivo a perdonare Ion per quell’azione. Spinto da un irrefrenabile impulso, portai la sacca e il suo contenuto nel luogo sul pavimento dove l’olio si era versato e lo diedi alle fiamme, lentamente, avendo cura che tutto si consumasse il più possibile. La sega di metallo rimase intatta e il manico del martello si annerì solo leggermente ma l’aglio salì al cielo come l’incenso più pungente, con un fumo copioso, che irritava gli occhi. Provai piacere nel vedere il palo carbonizzato e rotto in piccoli pezzi.
Intanto, tutto l’olio si era consumato e il fuoco si era spento, lasciandomi in una nebbiosa oscurità. Feci scivolare il revolver nella cintura e mi alzai, stordito dal fumo e dall’oppio e ritornai, inciampando, verso la camera interna.
Mentre entravo nello stretto corridoio, intravidi all’estremità opposta un momentaneo bagliore bianco ed esitai, dapprima timoroso, ma, prima di scomparire, il lampo era stato gentilmente radioso, come il debole chiarore di una candela. Non era un lupo, ma una persona che portava una lampada che si spegneva… Mary, decisi, che era ritornata, e in qualche modo era scivolata nella camera interna senza che me ne accorgessi.
La chiamai per nome.
E udii riecheggiare all’interno della seconda camera, un debole sospiro, quasi un lamento, un suono che era, nello stesso tempo, umano, femminile, eppure stranamente funereo. E con quel suono… non capisco come o perché, ma con quel suono…
Tutta la confusione, tutti i dubbi scomparvero. C’era ancora la paura, sì, più profonda e forte quanto mai prima, e il dolore. Posso soltanto paragonare la mia esperienza mentale a quella di un uomo che, ignorante del fatto che è stato cieco per decenni, all’improvviso ritrova la vista. I freni del controllo caddero, gli artigli invisibili che mi stringevano il cranio scomparvero. Per la prima volta dalla mia infanzia, la mia mente fu veramente mia.
La luce aumentò mentre Zsuzsa entrava nella camera esterna…
Oh dèi! Era bella, radiosa come un angelo. Era la sua pelle chiara, lucente che aveva luccicato nel corridoio, ed io la vidi nell’oscurità tanto chiaramente come se fosse stata circondata da un migliaio di candele accese: no, sembrava che bruciassero chiare all’interno di lei!
Era impossibile per qualsiasi uomo non essere attirato come una falena verso quella fiamma interna, verso quelle labbra piene, di satin rosso, verso quei denti scintillanti. Verso quegli occhi, il cui delicato colore castano scuro non era cambiato, ma che ora sembrava brunito con l’oro; occhi vuoti, selvaggi che mi guardarono e non mi riconobbero. I suoi capelli erano diventati lucidi e neri, sfavillanti di scintille blu elettrico. I capelli cadevano liberi e soffici fino alla vita, su un corpo le cui forme si mostravano chiaramente sotto il diafano sudario: un corpo nuovamente perfetto, pieno e femminile.
Percepii tutto questo nello spazio di un secondo, non di più. Per quel breve momento, sentii il bisogno di avvicinarmi, di abbracciarla, di baciare quelle labbra cremisi, di piangere di gioia per la sua resurrezione; ma la mia mente era libera e i miei pensieri chiari. La mia esultanza si trasformò rapidamente in orrore quando compresi con abbagliante convinzione la verità riguardo a V., e riguardo alla mia povera, defunta sorella.
Mio Dio, io pensavo di conoscere la paura, ma ciò di cui ho fatto esperienza nel mio passato è come un piccolo stagno cristallino a paragone con l’oceano scuro per la tempesta, turbolento, che ora mi circonda.
Mi voltai e mi misi a correre; corsi come se il Demonio in persona mi inseguisse, attraverso il pendio irregolare in direzione della casa, con la mente che turbinava per le rivelazioni.
Mio zio era veramente lo strigoi della leggenda. Io ero stato controllato, condotto, passo per passo, da V, sotto le spoglie del fantasma di mio fratello; era lui che aveva controllato il comportamento dei lupi, che dovevano uccidere altre anime curiose che si introducevano nelle aree proibite della foresta, ma che non dovevano farmi del male. Era lui che aveva fermato in tempo i lupi… per portarmi alla conclusione che ero pazzo.
Lui si prende gioco di te… È tutto un gioco.
Tutto un gioco sadico per condurmi alla foresta, poi a Bistritz, poi sull’orlo della follia… ma a quale scopo? Per questa notte, per essere solo una pedina che proteggesse Zsuzsa? Per corrompere la mia volontà, in modo che poteggesse cooperare nei delitti? Nel procurare delle vittime?
Ma V. non ha bisogno dell’aiuto di nessuno; è possibile che mi tormenti per il puro e semplice piacere di farlo? No. Dev’esserci dell’altro; è troppo scaltro, troppo calcolatore ma, se fossi così, perché ora sono tornato in possesso del controllo della mia mente, dei miei pensieri, delle emozioni, e della volontà?
Sono corso direttamente alle stalle e lì ho attaccato il cavallo al calesse, con l’intenzione di andare a prendere Mary immediatamente e fuggire con lei nella notte. Ma, prima che potessi salire nella carrozza e portarla di fronte alla casa, udii un grido improvviso:
«Domnule! Domnule!».
La piccola cameriera, Dunya, è uscita come un lampo dall’oscurità, gesticolando animatamente; il suo fazzoletto si era allentato e le era scivolato dai capelli, e il suo viso era rosso e luccicava di lacrime.
«Domnule, presto!», gridava, singhiozzando e ansimando in modo tale che poteva a malapena parlare. «Il bambino sta per nascere e lui l’ha presa! Lui l’ha presa!».
Il cuore mi si gelò; seppi immediatamente di chi parlava, ma l’afferrai per le spalle e la scossi.