«Chi? Mary? Qualcuno ha preso Mary?»
«Vlad!», rispose.
«Dove?»
«Il castello…».
Salii con un balzo sul calesse e impugnai le redini; accanto a me Dunya si torceva le mani, piangendo in modo penoso:
«Non mi lasciate! Per favore, fatemi venire!».
«È più sicuro per te restare qui», dissi, e incitai i cavalli, ma lei riuscì ad afferrarsi alla carrozza in movimento e salì, dicendo, con una determinazione che mi commosse:
«È la mia padrona; non posso lasciarla sola! Il bambino sta arrivando e lei ha bisogno di me».
Così mi diressi al castello equipaggiato con null’altro che una lanterna, il revolver di papà, e la cameriera.
Mentre ci avvicinavamo a quelle grigie mura di pietra, esse apparivano più che mai ostili e abbandonate; dapprima supposi che fosse il mio stato mentale a farle apparire così, poi mi accorsi, mentre fissavo i grandi e antichi bastioni scuri che si innalzavano contro il cielo ancora più scuro, che non c’era una sola finestra alla quale brillasse della luce.
Fermai il calesse nel cortile e porsi le redini a Dunya.
«Rimani qui. Se non ritorno con Mary entro un quarto d’ora, mettiti in salvo», le dissi.
Il terrore dilatò a dismisura i suoi occhi, ma rispose risolutamente:
«Resterò qui finché ritornerete con la doamna».
Cercai anche di lasciarle la lanterna, ma lei insistette che la portassi e così, con la lampada in mano, cercai di aprire il grande portone, che era stato sprangato. Per questo feci il giro verso la piccola entrata nella parte est del castello, che conoscevo soltanto perché avevo visto dei domestici che la usavano. Con la mano libera tirai fuori il revolver e mi feci strada attraverso i corridoi stretti, poi salii la tortuosa scala centrale diretto verso l’ala degli ospiti.
Mi sforzai di udire i lamenti di una donna che partorisce, ma il castello era privo di luce e di rumori, come una tomba, tranne che per l’oscillante chiarore giallo gettato dalla lampada e il risuonare dei miei passi frettolosi. Eppure non riuscii a liberarmi della sensazione che nell’ombra si celasse una malvagia e vigile intelligenza, consapevole di ogni mia mossa. Sfrecciai di stanza in stanza, di piano in piano, sempre più veloce, chiamando, dapprima piano e poi, preso dalla disperazione, gridando, il nome di Mary.
Silenzio! Solo silenzio e oscure camere da letto non utilizzate da secoli e ricoperte di polvere.
Il mio passo e la mia agitazione crebbero finché, alla fine, rimasero da controllare solo due stanze: le stanze per gli ospiti e le camere private di V. La direzione delle mie ricerche mi fece arrivare prima nelle stanze degli ospiti, la mia migliore speranza. La porta dove, in precedenza, un arruffato e bagnato Herr Mueller ed io avevamo parlato era spalancata, e le stanze erano buie come il resto dell’edificio.
La morte di mia sorella e il mio terrore per Mary mi avevano fatto dimenticare totalmente i poveri visitatori per tre giorni; me ne ricordai in quel momento, con un brivido di terrore. Tenendo alta la lanterna, attraversai il salone esterno, quindi entrai nella camera da letto, questa volta chiamando sia il nome di Mary che quello dei Mueller.
Con mia amara delusione, anche quella camera era deserta, sebbene i segni dei suoi ultimi abitanti fossero fin troppo evidenti; una camicia da notte da donna bianca in merletto e seta, di quel tipo elaborato indossato dalle spose nella loro prima notte di nozze, pendeva dal bordo di una sedia vicina, dove era stato gettato con gioioso abbandono, e sul grande letto con baldacchino, nel centro del quale notai un piccolo fiore di sangue rappreso, le lenzuola, i cuscini e il copriletto erano stati gettati via e attorcigliati in mucchi disordinati e sgualciti.
Soltanto uno della mezza dozzina di cuscini era rimasto al suo posto, all’estrema sinistra, contro la testata del letto. Appoggiata contro il cuscino solitario, come se fosse stata messa lì con estrema cura per guardare ciò che avveniva, sedeva una bambola con un vestito da battesimo di pizzo, le mani e la faccia di porcellana e il corpo di stracci. Era caduta in avanti: la testa premeva sulle lenzuola, e le braccia senza vita, ricoperte di merletto increspato, erano tese in avanti così che le sue manine erano appoggiate accanto ai ricci bruni ricoperti di lacca.
Nell’angolo più lontano della stanza c’era una vasca da bagno piena di acqua grigia. Vicino al letto un baule era aperto e in disordine, come se i proprietari vi avessero preso dei capi di vestiario, ma c’erano tanti di quegli oggetti sparsi per la stanza che davano un’idea precisa della quantità di bagaglio che poteva essere stata stipata nel baule. Sembrava che, per una volta almeno, i domestici non se la fossero data a gambe con qualunque bottino fossero riusciti a rimediare.
La lampada non rivelava indizi riguardo a cosa ne fosse stato della giovane coppia, e così lasciai le stanze degli ospiti con un senso di cattivo presentimento e fatalismo. Riuscivo a pensare solo alle stanze segrete di V.; sapevo che la risposta al destino di mia moglie e a quello degli ospiti mi attendeva là.
Mi feci strada attraverso corridoi immersi nella notte verso le stanze dello zio e, più mi avvicinavo, più il mio terrore cresceva.
Arrivai a scoprire che la porta che conduceva al salotto di V. era aperta e il focolare e le candele spenti. Entrai, distolsi lo sguardo dal camino, e vidi una striscia di luce che indorava la porta leggermente socchiusa che conduceva alle camere privato dello zio.
Quella striscia di luce mi attirava come un magnete. Poggiai la lampada sul tavolino e attraversai il salotto fermandomi davanti a quella porta.
La realtà vacillò. Sapevo che io, un adulto, sposato e presto padre, stavo allungando la mano per afferrare la maniglia. Nello stesso tempo ero Arkady, il bambino di vent’anni prima che si stringeva pieno di paura a suo padre, mentre Petru afferrava la maniglia.
La mano dell’Arkady adulto girò la maniglia e spinse; la mano fantasma di mio padre fece lo stesso.
E, al rumore dei cardini che cigolavano, la porta della memoria si aprì per introdurmi nel mio passato. L’Arkady cresciuto svanì, lasciando solo me bambino e mio padre nella realtà, a lungo cancellata di venti anni prima, nei cupi giorni successivi alla morte di Stefan.
Nel secondo che ci volle perché la porta si aprisse, cigolando, ricordai:
Varcavo la soglia con mio padre, la sua mano stretta nella mia, e la sua voce era bassa e calma mentre diceva: «Non ti verrà fatto alcun male, Kasha. Soltanto abbi fiducia in me e nello zio…».
La luce di cento candele luccicò nei suoi occhi pieni di lacrime.
Passammo attraverso la stretta entrata, poi uscimmo in una grande sala. Il lato dove mi trovavo, a sinistra, era nascosto alla vista da una tenda di velluto nero che scendeva dal soffitto al pavimento, abbastanza grande per nascondere un piccolo palco.
Di fronte a noi, sul muro in fondo, c’era ancora un’altra porta chiusa che conduceva a un’altra camera segreta.
Alla nostra destra, dall’altra parte di quel misterioso teatro, c’era una piattaforma di legno scuro, lucido, con tre gradini che conducevano a un trono. La base della piattaforma aveva un intarsio d’oro, che recitava la frase JUSTUS ET PIUS.
Giusto e fedele.
Oltre il trono c’erano degli alti candelabri, carichi di candele accese, e sul trono era seduto lo zio, che stringeva i braccioli nella sua usuale posizione regale.
Emanava una tale fiduciosa potenza, una tale forza virile, che io lo guardai con la stessa paura e ammirazione che avrei avuto per un bel leone: terrorizzato per la sua collera, senza fiato per la sua magnificenza. I suoi abiti erano scarlatti, e sulla sua testa era posato un antico diadema d’oro tempestato di rubini. Dietro di lui, era appeso sul muro un fatiscente scudo di guerriero di età incalcolabile; riuscii appena a distinguere su di esso il drago alato che stava scomparendo, e capii che era lo scudo rappresentato nel ritratto dell’Impalatore.