Alla destra di V. c’era un calice d’oro, con un grande e unico rubino, che era posato in uno speciale incavo nel bracciolo del trono in modo tale che il contenuto non si versasse.
Ma i gioielli che brillavano più degli altri erano i suoi occhi che, risaltando contro il biancore della sua pelle e l’argento dei capelli che cadevano sulle sue spalle, mi trapassavano con la loro spietata lucentezza smeraldina, con la loro spaventosa intelligenza. La sua bellezza era simile a quella di Zsuzsanna quando si era alzata dalla tomba: come il sole, troppo radiosa da sopportare.
Tanto stupefatti da restare in reverente silenzio, ci avvicinammo al Principe sul trono. Infine mio padre si genuflesse, poi si inginocchiò per mettermi le braccia intorno alle spalle e disse, con un tono indicibile di dolorosa rassegnazione:
«Ecco il ragazzo».
«Tu sei triste, Petru», disse il Principe meditabondo, con una voce profonda e bella; io rimasi senza fiato per la sorpresa, poiché era sembrato troppo irreale, troppo bello, troppo un’opera d’arte per parlare. «Ma non ce n’è motivo. Io amo il ragazzo e lo tratterò bene».
«Come hai trattato me?».
Era un rimprovero, ma il Principe rimase distante, impassibile.
«Nessun male accadrà a coloro che amerà, a meno che non mi tradisca. Tutto ciò gli sarebbe stato risparmiato; suo fratello Stefan sarebbe stato scelto poiché era il maggiore, e Arkady avrebbe vissuto una vita libera da questo incarico, ma sono state le tue azioni che lo hanno condotto qui. Tu solo sei il responsabile per il dolore che ha visitato la tua famiglia, Petru. Io sono severo, ma giusto. Rimani fedele a me, ed io rimarrò fedele a te. È tutto ciò che chiedo».
Sollevò un oggetto. T’argento lampeggiò mentre faceva scorrere il coltello sul suo stesso polso e lo teneva sopra il calice d’oro sul bracciolo del trono. Sanguinò poco, solo alcune gocce che uscirono soltanto perché incoraggiate, e poi tese il pugnale verso mio padre.
«È ora», disse.
Mio padre esitò, poi camminò fino al trono e con riluttanza prese il coltello dal Principe. Lo tenne in alto per un momento ed io vidi ancora il luccichio della luce delle candele riflettersi sul metallo affilato.
«Non posso», gridò mio padre, angosciato; la voce gli tremò.
«Devi», rispose il Principe, con una voce severa e inflessibile ma io udii la strana corrente di tenerezza nascosta. «Devi. Io non oso farlo da solo. È tuo figlio; sarai gentile».
Le dita di mio padre si strinsero sul pugnale. Lo abbassò lentamente, poi con l’altra mano prese il calice offerto dal Principe.
Lo guardai che ritornava al mio fianco, provando nient’altro che una curiosità infantile. Avevo fiducia in mio padre, anche quando sollevò il calice alle mie labbra e mi costrinse a berne un piccolo sorso. Soffocando, sentii il sapore del sale, del metallo e della putrefazione, ma l’effetto di quel piccolo assaggio fu oltremodo inebriante. Divenni instabile sulle gambe, poiché riscaldava come il vino ed era anche piacevole. Provai un’improvvisa esplosione d’amore e gratitudine, forte e inesplicabile, per lo zio, mentre mi mettevo seduto; mio padre si inginocchiò accanto a me. Quando posò il calice per prendermi il braccio e voltarne l’interno verso di lui mentre sollevava il pugnale, non sentii alcun timore, soltanto una lieve apprensione per il fatto che il taglio potesse, per un po’, farmi male.
Certamente non temetti per la mia vita quando portò il bordo tagliente della lama del pugnale contro la tenera parte interna del polso e intaccò una vena, mormorando:
«Mi dispiace. Un giorno capirai… è per il bene di tutti… Per il bene della famiglia, del villaggio, del paese…».
Il dolore mi risvegliò dal mio piacevole torpore. Gridai per l’indignazione e continuai così mentre lui teneva la mia piccola ferita che sanguinava copiosamente sopra il calice, e la spremeva.
Lottai debolmente, ma papà mi tenne fermo il braccio finché il fondo della coppa d’oro fu ricoperto con il mio giovane sangue scuro. Poi tirò fuori dalla tasca un fazzoletto pulito e lo avvolse stretto sul taglio, stringendolo per un po’ per arrestare il flusso.
Infine si alzò, diede la coppa allo zio e ritornò da me. Io rimasi, leggermente stordito, con la testa sulle sue gambe, mentre lui mi accarezzava i capelli, sussurrandomi piano delle scuse e delle parole di conforto, mentre lo zio teneva il calice nelle mani a coppa e abbassava il viso sopra di esso, con gli occhi chiusi per pura beatitudine, annusando il suo odore come un esperto che inala la fragranza del migliore cognac vecchio di secoli.
Poi aprì gli occhi, lucenti per il desiderio, e disse:
«Arkady. Così io ti lego a me. Puoi lasciare la tua casa… per un po’, ma questo assicurerà il tuo ritorno a me, al momento giusto, e, al momento giusto, tu sarai restituito a te stesso e tutto ti sarà svelato. Questo io giuro: a te e ai tuoi non sarà mai fatto del male e saranno sostenuti con generosità, purché tu mi sostenga e mi obbedisca. Il tuo sangue per il mio. Questi sono i termini del Patto».
Affascinato, guardai con la testa sulle gambe di papà la luce delle candele che si rifletteva sull’oro mentre V. capovolgeva la coppa e beveva.
Gridai e mi afferrai la testa mentre artigli di ferro affondavano nel mio cervello.
All’improvviso ritornai in me, all’Arkady adulto del presente. L’intera memoria mi era ritornata, in pieno e completa, nella frazione di secondo necessaria ad aprire la porta e spalancarla.
Adesso attraversai da solo la soglia.
Passai attraverso la piccola entrata nella grande stanza.
Lì, alla destra, c’era il trono del Principe, ora vuoto, sebbene uno dei candelabri a fianco, alto come me, fosse stato acceso.
Lì, c’era anche l’antico scudo, sebbene mancasse il calice che, un tempo, aveva contenuto il mio sangue. Al centro del muro più lontano c’era la porta che conduceva a misteri ancora più profondi e, alla sinistra…
A sinistra, il velo di nero velluto era stato tirato da una parte per rivelare ciò che un tempo era stato nascosto.
Inchiodata al muro, c’era una serie di nere manette di ferro; appoggiati, nei pressi, c’erano quattro pali oliati e luccicanti, due volte l’altezza di un uomo e consumati da un lato per avere delle punte arrotondate; una ruota di tortura e, dondolanti dal soffitto, le grosse catene di metallo di una “strappata”, usate per sollevare le vittime in aria per mezzo delle braccia. Sotto le manette e la “strappata” erano strategicamente poste delle vasche di legno, con gli interni puliti ma macchiati di un indelebile colore rossiccio, a causa di innumerevoli anni di uso.
Da un lato di questa camera degli orrori si trovava una cassa intagliata che conteneva un assortimento di mannaie e coltelli e, accanto ad essa, stava un robusto tavolo, alto fino alla vita, della lunghezza e della forma di una bara.
Su questo tavolo era steso Herr Mueller, nudo e bocconi, la carne nuda della schiena del bianco scioccante di una statua d’alabastro. Solo la parte superiore del corpo era appoggiata sul tavolo; le gambe penzolavano verso il pavimento, piegate leggermente alle ginocchia a causa della loro lunghezza, in modo che il suo corpo formasse una “L” con le due parti della stessa lunghezza, anche se non del tutto diritte. Sopra la sua intricata criniera di capelli ricci, del colore della sabbia, le braccia erano tese come quelle di un tuffatore e, dapprima, pensai che afferrasse il bordo del tavolo.