Ma no, le mani erano estremamente rilassate. Pensai immediatamente alla piccola bambola di pezza e porcellana, scivolata in avanti sul suo letto nuziale.
Era senza energia e senza vita come lei; morto. Completamente morto.
Ma si muoveva.
Si muoveva, il tronco senza vita scosso avanti e indietro, i ricci castano dorati, qua e là che sobbalzavano, la testa che pendeva leggermente, le braccia senza vita che scivolavano su e giù contro il tavolo, le dita prive della capacità di sentire, che lucidavano il legno opaco, senza vigore, orribilmente, allo sbattere ritmico della carne di un altro contro la sua.
Alzai lo sguardo e vidi Laszlo, con gli occhi chiusi, le labbra aperte in un’estasi di sogno, che afferrava il cadavere alle anche mentre stava dietro al bordo del tavolo. I suoi pantaloni erano aperti, tirati giù fino alle cosce e l’orlo della lunga camicia da contadino strusciava sopra il dorso del morto mentre lui spingeva.
Guardai nuovamente il corpo e seppi che il viso nascosto a me era gelato nello stesso ghigno di orrenda angoscia di Jeffries.
Non pensai, non riflettei, non indietreggiai. Alzai la pistola di mio padre, mirai precisamente al centro del cranio dell’uomo e aprii la bocca per gridare:
«Fermo! In nome di Dio, fermo, o farò fuoco».
Rapidamente, così rapidamente che non ebbi il tempo di pronunciare parola, Laszlo si liberò dal cadavere, tirò fuori una mannaia dalla cassa e me la scagliò contro.
Il manico della mannaia mi fece cadere di mano il revolver che scivolò nell’ombra mentre Laszlo si gettava in avanti sopra il tavolo.
Anche alla luce tremolante delle candele, potei vedere che il suo volto si era trasformato. Non era più l’ottuso e avido cocchiere ma una furia dagli occhi feroci. Si scagliò come il lupo che mi aveva attaccato nella foresta il giorno che avevo scoperto le tombe nascoste. Alzai le braccia per difendermi, quasi credendo che non mi avrebbe fatto del male che, come il lupo, fosse lì semplicemente per minacciare, per scoraggiare, per mettere alla prova.
Barcollammo all’indietro come ballerini ostinati, con la sua mano destra che stringeva il mio polso sinistro e la mia mano sinistra che afferrava il polso della mano che voleva afferrarmi la gola. Eravamo vicini come due amanti, tanto che potevo sentire il suo odore: un sudore acido, mescolato al lieve odore di feci e decomposizione.
In questo modo procedemmo, con le braccia che tremavano forte nella stretta mortale, con la sua forza da pazzo che mi obbligava a indietreggiare, ad allontanarmi dal luogo macabro dove Mueller e Jeffries avevano incontrato la morte, finché le pietre sotto i miei piedi divennero ineguali, persi l’equilibrio e caddi.
Caddi con la schiena sul freddo pavimento di marmo, espirando dai polmoni. Lottai per rialzarmi subito, cercando la gola del mio aggressore e tentando invano di afferrarla, ma la mia spalla destra era bloccata saldamente, evocando l’immagine del lupo nella foresta, con le zampe sulle spalle, che mi teneva giù ma che resisteva alla tentazione di uccidere.
Ma quel lupo umano non aveva una tale ritrosia. Il mio tentativo di alzarmi non distolse la mia forza che per un secondo, ma fu sufficiente. Con il volto contorto nel dolore dello sforzo e i denti scoperti, ruppe la mia presa e mi afferrò alla gola.
Gridai — un grido breve, indignato — e gli afferrai i polsi, lottando per l’aria che non arrivava. Temevo che la mia battaglia fosse finita, che anch’io avrei dovuto sottostare all’offesa dopo la morte che Jeffries e Herr Mueller avevano conosciuto.
Ma il mio grido fu seguito dopo due secondi — non di più — da un’improvvisa, riecheggiante esplosione alla mia destra. Nella mia confusione, pensai che il revolver avesse sparato da solo ma, quando il mio sguardo rapidamente si mosse nella direzione del rumore, vidi che la porta della camera interna, da cui distavamo ora alcuni metri, era stata spalancata con forza.
V. era sulla soglia, avvampando, non di gloria ma per l’ira. Le sue scure sopracciglia erano aggrottate e i lineamenti contorti per una rabbia terribile a vedersi. Nello stesso tempo era anche bello, nella maniera implacabile, accecante, del sole, di un angolo vendicatore. I suoi capelli erano completamente neri, tranne che per alcune strisce rossicce, e la sua pelle irraggiava il colorito dell’eterna giovinezza virile. Pensai che stavo guardando un me stesso perfezionato, redento. I nostri sguardi si intrecciarono, e la furia nei suoi occhi si mescolò con un indicibile stupore.
«Che impudente magia è questa?», bisbigliò con passione. «Troppo presto… ti sei liberato troppo presto! Pensi di rovinare i miei piani?».
Lo fissai con vuota incomprensione. Socchiuse gli occhi e sembrò giudicare sincera la mia reazione. Mentre guardavo, si avvicinò con impossibile rapidità o, piuttosto, si mostrò semplicemente più grande nel mio campo visivo. Senza che sembrasse muoversi affatto, fu improvvisamente accanto a noi.
Alla sua vista, il mio aggressore indietreggiò e si inginocchiò come un penitente mentre io cadevo all’indietro, ansimando, sul pavimento. Tastai il collo che pulsava e, infine, riuscii a sedermi mentre Laszlo piangeva:
«Non ti arrabbiare, domnia ta! Ha cercato di uccidermi…».
V. parlò ancora e la sua voce, sebbene bassa, risuonò nella stanza silenziosa come un tuono, come il vento e dei cembali che suonassero, come la voce di Dio.
«Allora avresti dovuto permetterglielo».
Il Principe aprì il pollice e l’indice formando una v e afferrò con forza la parte molle del collo di Laszlo. Con un braccio muscoloso sollevò il cocchiere che tremava… in alto, ancora più in alto, finché i piedi di Laszlo penzolarono ad alcuni centimetri da terra e la sua faccia viola e senza fiato si trovò a circa trenta centimetri da quella di Vlad.
«La morte è tutto ciò che meriti!», sibilò V., con gli occhi che gli scintillavano come lucenti stelle verdi. «Quando sei venuto da me, la prima volta, non ti ho fatto giurare sopra ogni altra cosa che non gli avresti mai fatto del male? Che non avresti mai gettato nemmeno uno sguardo sconveniente alla mia famiglia e, meno che mai, a lui? Non l’ho fatto? Non l’ho fatto?
Ti ho lasciato fare tutto ciò che desideravi e tu mi hai disobbedito! Questo non te lo perdonerò mai!».
Scosse l’uomo che stava soffocando come una marionetta; Laszlo scalciava nell’aria, lottando invano per respirare, per protestare, quando V. chiuse la mano intorno alla sua gola.
«No!», gridai con voce rauca. «Fermo!».
Mi gettai in avanti. Lui mi guardò e alzò la mano libera — l’alzò soltanto e l’agitò come se stesse scacciando una mosca — mandandomi all’indietro attraverso la stanza.
Con le spalle e la schiena battei contro il tavolo dove giaceva il cadavere di Herr Mueller, e l’aria mi uscì dai polmoni. Per alcuni secondi rimasi stordito, incapace di respirare; nel silenzio, udii la vittima che ansimava, poi cominciò a gorgogliare, affogando, dato che la pressione gli stava frantumando le vene nella gola.
Mi ripresi e tastai il pavimento, cercando inutilmente nell’oscurità la pistola perduta, sapendo che l’arma sarebbe stata vana contro V., ma non potevo restare fermo a guardare un uomo che veniva ucciso, per quanto fosse perverso e malvagio.
Infine ci fu un suono improvviso, soffocato, che sembrò più felino che umano. Alzai lo sguardo per vedere Laszlo oscillare, mentre pendeva dalla mano di V. con lo stesso movimento paurosamente privo di vita che avevo visto in Herr Mueller; i suoi occhi chiari sporgevano dalla faccia rossa apoplettica e la lingua gli fuoriusciva dalla bocca aperta. Le dita di V. erano così profondamente conficcate nella carne del collo che mi sorpresi che questa non si fosse lacerata.