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Strisciai via sulle mani e sui piedi da quella vista e non mi voltai a guardarmi indietro al rumore del corpo lasciato cadere sulla pietra. Volevo solo fuggire me stesso, per trovare riparo dalla coscienza; raggiungere Laszlo nell’oscurità della morte. Continuai finché caddi sull’entrata aperta della camera interna, e poggiai la guancia contro la fredda pietra, esausto per la lotta, attirato verso il buio. Ma, mentre voltavo la testa per posarla a terra, vidi all’interno un bianco più radioso, parzialmente nascosto da un ingresso. La curiosità mi fece raddrizzare e allungare in avanti, cercando di vedere oltre l’angolo dell’entrata.

Un altro lampo bianco, accompagnato da fievoli gemiti di donna. Pensai subito alla mia povera Mary e il mio cuore cominciò a battere rapidamente. Afferrai lo stipite, mi rimisi in piedi sulle gambe malferme ed entrai con il cuore pieno di terrore. La stanza si apriva alla mia sinistra, dove il muro aggettava di circa un metro per impedire, quando era aperta, di vedere dentro, a chi si trovava all’esterno. Mi feci avanti quanto bastava per vedere l’intera stanza e lì rimasi.

Era, forse, grande un terzo della camera esterna, senza finestre e senz’aria, con lo stesso vago odore di pietra, terra e decomposizione della tomba di famiglia. Era più buia della camera esterna, tanto che potei appena distinguere, di fronte a me, le forme di due bare una accanto all’altra. Entrambe erano nere e la più grande era adorna di un simbolo raffigurante lo stesso emblema del drago dello scudo dell’Impalatore. Accanto, verso la parte superiore della bara più piccola, c’era un altro groviglio carnale spaventoso per i miei occhi da decifrare. Davanti, c’era una creatura con un viso da ragazzina e un corpo fiorente di donna che riconobbi come la sposa bambina di Herr Mueller. Era mezza nuda, con il vestito sbottonato e arrotolato fino alla vita, e la testa inclinata da un lato in modo che i lunghi ricci bruni — molto simili ai ricci della bambola di porcellana — cadessero giù sopra una spalla e un seno rosato come una conchiglia. Ma anche la sua perfetta pelle di porcellana sembrava opaca in confronto alla radiosa carne bianca della donna che era dietro di lei.

Era mia sorella, bellissima nei suoi vestiti da defunta, proprio come mi era apparsa in precedenza nella tomba di famiglia. Zsuzsanna serrava le labbra su quel collo roseo per succhiare con delicatezza, reggendosi con una mano alla vita della sposa mentre con l’altra ne sosteneva il seno rigoglioso. Una ciocca dei capelli di Zsuzsa, neri con una sfumatura leggermente blu, erano scivolati in avanti e cadevano dal punto in cui beveva, giù per il busto fino alla vita della donna, come un filo di sangue scuro.

Dietro mia sorella, contro il muro, c’era un altare, la cui altezza amvava alla vita, coperto di nero, su cui era accesa una sola candela nera che illuminava gli oggetti che vi si trovavano: il calice d’oro, il pugnale d’argento con l’elsa nera con iscrizioni e un pentacolo di pietra, che esaltava il male.

L’espressione di Frau Mueller era rilassata, e le sue labbra color delle primule si aprivano in una sognante sensualità; inarcava la schiena contro Zsuzsa ed emetteva dei piccoli sospiri che sembravano ispirati tanto dall’estasi quanto dal dolore.

Anch’io emisi un suono; un forte sussulto, udendo il quale gli occhi di mia sorella si aprirono all’istante. La ragazza gridò e lottò, questa volta per inequivocabile paura e dolore, ma debolmente, ancora in trance, con gli occhi ancora chiusi. Zsuzsanna distese la mano sul seno della ragazza e la premette forte a sé, come se prevedesse una lotta e alzò lo sguardo nella mia direzione.

Del rosso colava dalle labbra di mia sorella, macchiandole i denti e la lingua. Il sangue sgorgava da due piccole ferite sul collo della ragazza. Un piccolo fiume rosso le scendeva sul seno, sulla mano della sua seduttrice; l’altra era intrecciata alla ciocca ribelle dei capelli di Zsuzsanna.

Mia sorella mi guardò con i suoi occhi di colore castano brunito, occhi che erano vuoti e animaleschi, gli occhi di una leonessa disturbata mentre si nutre con la preda. Non mi riconobbe, dato che non vi fu in essi alcun segno di emozione o di riconoscimento; ma mi dovette giudicare innocuo, poiché ritornò alla sua preda quasi immediatamente. La guardai mentre scopriva dei denti aguzzi non umani; la guardai mentre li conficcava nella carne tenera e allargava le ferite. La ragazza gridò stridula e si dimenò, per cui Zsuzsanna serrò rapidamente le labbra sulle ferite e cominciò a succhiare.

Immediatamente la ragazza si immobilizzò.

Mi sarei gettato su di loro cercando di liberare la ragazza, ma avevo già provato la forza del Vampiro. Mi voltai, pensando di andare a prendere un’arma dalla stanza esterna, ma una mano sulla spalla mi fermò.

«Arkady».

Guardai V. che mi stava davanti, non più radioso angelo vendicatore, ma una creatura completamente umana che mi parlava con la voce di mio padre, che mi guardava con gli occhi di mio padre, che teneva la Colt di mio padre nella mano destra.

Senza pensare, gliela strappai di mano e corsi verso mia sorella, le cui labbra erano ancora premute sul collo della ragazza nelle sue mani. Mi avvicinai a loro, quindi premetti la canna metallica del revolver contro il collo di mia sorella, facendo attenzione a porla in una direzione tale da non minacciare la ragazza e supplicai:

«Zsuzsa… fermati!».

Mentre beveva, gli occhi di Zsuzsa erano stati chiusi in un’estasi assorta; ora non smise di bere, ma gorgogliò profondamente nella gola e alzò appena le palpebre per guardarmi con la coda dell’occhio. E nel suo sguardo sazio, leggermente ebbro, non vidi paura.

«Ferma! Per l’amore di Dio, ferma!», gridai, ma sapevo che non l’avrebbe fatto, proprio come sospettavo che quello che stavo per fare fosse inutile. Nondimeno lo feci.

Premetti il grilletto. L’arma sparò. Barcollai all’indietro al rinculo e tossii mentre una nuvola di fumo sulfureo mi pizzicava la gola, il naso, gli occhi.

Zsuzsa barcollò, alzò la faccia sporca di sangue, con i bei lineamenti contorti, gli aguzzi denti perlacei che si stringevano di rabbia. Ancora si teneva stretta alla vittima. Quando il fumo si dissipò, vidi sul suo collo una ferita nera, aperta, che cominciò a buttar fuori del sangue fresco, di un colore vivo, che io sapevo non essere il suo.

Poi si raddrizzò e, mentre la guardavo sbalordito, la ferita cessò di sanguinare e cominciò a chiudersi. Entro pochi secondi guarì completamente e, come prova dell’offesa, rimase solo l’ombra della polvere da sparo. Zsuzsa chinò ancora la testa, completamente priva di paura, e premette le labbra nuovamente sulla gola della ragazza.

Mi gettai su di lei e cercai di strapparle la ragazza, sapendo che era inutile. È mia sorella — la mia piccola, fragile sorella, un tempo storpia e così debole da poter appena scendere le scale di casa per venirmi a salutare — resse la vittima con un braccio e con l’altro mi colpì.

La forza di quel colpo mi spinse attraverso la stanza e contro il muro; la pistola cadde rumorosamente sul pavimento. In qualche modo riuscii a restare in piedi e mi appoggiai, con un basso grido di sconfitta, contro la fredda pietra.

Non c’era niente che potessi fare per salvare la vita di quella povera ragazza; nulla che potessi fare tranne guardare, singhiozzando in silenzio, mentre Zsuzsa beveva. L’imminente morte di Frau Mueller sembrava riempire mia sorella di crescente eccitazione e abbandono, e cominciò a bere con maggiore avidità, con sorsi rumorosi, frenetici, finché, alla fine, la ragazza emise un lungo, fievole lamento, e cadde. Zsuzsa l’afferrò, avvolgendo le braccia intorno alla vita della ragazza e sollevandola come una madre farebbe con un neonato. La tenne nelle braccia e continuò a bere finché Frau Mueller emise un lungo e sonoro sospiro.