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V., che era stato a guardare con solenne approvazione, si fece avanti e, togliendo la ragazza dalla stretta di Zsuzsa, disse:

«Basta! È finita. Insistere non fa bene, non quando è morta».

L’ansimante Zsuzsa, con le labbra che colavano sangue, sembrò accettarlo. Pigramente, come un animale che si è ben nutrito e va a riposarsi al sole, chiuse gli occhi soddisfatta e si lasciò andare sul pavimento di pietra davanti all’altare per riposare.

Con il corpo della ragazza bianco come latte sulle braccia, V. si voltò verso di me e disse:

«Vieni».

«Mia moglie!», domandai, con il cuore infranto al pensiero che potesse aver subito un destino simile a quello di Frau Mueller. «Che cosa hai fatto a mia moglie?»

«Vieni», ordinò V, in un tono che diceva che se desideravo rivedere ancora Mary, dovevo obbedire immediatamente.

Passò attraverso l’entrata. Io ripresi il revolver di papà e lo seguii, oltrepassando i resti immobili di Laszlo, fino al teatro di morte e al tavolo da macellaio, dove V. depose il cadavere di Frau Mueller accanto a quello di suo marito.

Alzò lo sguardo su di me e si fermò.

Immediatamente, ripetei:

«Mia moglie! Dov’è Mary? Dimmelo subito!».

Inutilmente brandii il revolver.

Un sorrisetto gli apparve sulle labbra; con una forza che annientava la mia, allungò una mano e facilmente mi tolse la pistola di mano, ma non la puntò contro di me.

«Quindi», disse, «hai riacquistato la coscienza».

«Mia moglie…!».

«Mi sembrava soltanto opportuno che il bambino dovesse nascere qui. Ha le doglie, ma sta benissimo. Dunya la sta aiutando».

«Dunya…».

Mi interruppi, intendendo dire, Dunya mi aspetta fuori, nella carrozza; è impossibile! Poi vidi il divertimento nel suo sguardo e chiusi la bocca aperta dall’orrore nel comprendere che sia io che la piccola cameriera eravamo state sue pedine.

Il divertimento nei suoi occhi scomparve bruscamente; il suo tono si abbassò, come quello di chi spiega il più sacro dei misteri.

«Presto discuteremo di tua moglie, ma prima… Stanotte hai saputo la verità, Arkady. Questo è ciò che sono; accettalo e non ci temere».

«Non potrò mai accettare una tale brutalità», mormorai, voltando la testa verso le vittime sul tavolo, ma chiudendo gli occhi, incapace di vedere.

«È la brutalità della stessa Natura», disse. «Noi siamo dei predatori; chi ci può incolpare perché lottiamo per sopravvivere? Chi può dire al falco che non deve cacciare, al leone che non deve uccidere? Chi osa chiamarlo peccato?»

«I falchi non pianificano freddamente di tormentare e uccidere altri falchi», replicai, con la voce tremante, i lineamenti contorti dal disgusto. «Né i leoni altri leoni, ma è omicidio quando gli uomini cominciano a farlo».

«Arkady», rispose sommessamente, «noi non siamo umani».

A questo non potei rispondere, ma distolsi il viso, con l’intenzione di evitare la macabra scena sul tavolo.

V. parlò ancora, con lo stesso tono cupo pieno di rispetto.

«Ti ricordi la cerimonia e ciò che si disse del Patto?»

«Mi ricordo».

Con amarezza fissai il pavimento, ricordando il dolore paralizzante, senza speranza, negli occhi di mio padre.

«Il rituale è completo. Allora ti presi la volontà, per assicurarmi che, ora, saresti ritornato da me. Questi sono i termini del Patto: che tu ci assisterai nel procurarci il nutrimento, e che, per il bene della cittadina, impedirai la creazione di nuovi strigoi. In cambio, io non farò mai del male a te o ai tuoi, ma provvederò ai vostri bisogni…».

«Ma tu hai rotto il Patto! Hai fatto del male a Zsuzsa!».

V. alzò il mento con regalità.

«Io le ho dato la vita; prima non aveva nulla. Per amore, l’ho resa uno strigoi, in modo che potesse conoscere la felicità insieme a me. Io accetto la responsabilità di curarla per sempre. Ci aiuterai?».

Alzò la pistola che teneva in mano. In un istante di confusione, pensai che potesse puntarmela contro, invece voltò la canna verso di sé e premette il calcio nel mio palmo. Chiusi le dita intorno all’arma e lo fissai.

«Io ti restituisco la volontà, Arkady. Devi liberamente decidere se ricambiare il mio amore o se rifiutarmi, sapendo chi sono e ciò di cui ho bisogno». V. si fermò poi guardò i cadaveri e chiese: «Tu hai sentito, ne sono certo, della superstizione contadina riguardo alla prevenzione di nuovi strigoi.

Guardai i due innocenti morti che giacevano davanti a me e mormorai:

«So che è quello che hanno fatto al corpo di papà».

«Sì», disse V., poi si voltò a guardare gli strumenti preparati accanto al tavolo e io seguii lo sguardo e vidi il martello, i pali corti, i coltelli.

Compresi immediatamente ciò che desiderava e gridai:

«No, non posso!».

Se avessi creduto di avere una qualche possibilità di sopraffarlo, lo avrei distrutto in quell’istante con gli strumenti che ci circondavano: ma non c’era niente che potessi fare.

L’espressione di V. era perfettamente dura, perfettamente fredda, perfettamente realistica, come se stessimo discutendo di qualche questione d’affari riguardo alla proprietà, su cui fossimo in leggero disaccordo.

«Anche tuo padre disprezzava questo compito e così si procurò Laszlo. Se lo desideri, anche tu puoi ricorrere ad un simile accomodamento. Non mi importa di come sia fatto, ma questa volta, dev’essere fatto adesso… e con rapidità! Devi, Arkady. Io non posso. Tu devi».

«No!».

Mi voltai e feci per andarmene. Immediatamente, una folata di vento passò per la stanza. La porta della camera esterna si chiuse con forza davanti a me e il chiavistello scivolò nella serratura.

Dietro di me, la voce di V. disse:

«Se non lo fai, si rialzeranno come strigoi… ed essi non sono legati al Patto, come tua sorella e me. Saranno liberi di fare del male a chiunque: a tua moglie, al tuo futuro figlio…».

Lo fronteggiai.

«Ma se rifiuto di adempiere al mio ruolo nel Patto? Dici che sono libero, che posso decidere, ma non agisco affatto di mia volontà se tu mi ricatti…».

Il volto di V. era una maschera impassibile.

«Tu sei libero ed io, come ogni predatore, sono libero di agire in un modo che assicuri la mia sopravvivenza. Io sono il voievod. Non mi comporto teneramente con coloro che mi tradiscono».

«Tu hai ucciso Stefan», dissi piano, con l’odio che prendeva all’improvviso il posto della paura. «Tu hai ucciso mia madre…».

Pensai al cane lupo che aveva ucciso entrambi i miei cari, al lupo alla finestra che era arrivato quasi a uccidere mia moglie, e le mie ginocchia cominciarono a piegarsi. Afferrai il bordo del tavolo per tenermi in piedi.

La sua espressione, la sua voce, erano completamente senza emozione.

«Mi ha spezzato il cuore, naturalmente, ma tuo padre sapeva essere, talvolta, estremamente ostinato. Era una sua scelta disobbedire e causare tali tragedie». Prese un palo e il martello dagli strumenti accanto al tavolo e me li offrì. «Proprio come adesso è tua la scelta. Sai essere forte, Arkady? Puoi mettere da parte ciò che è il tuo interesse per fare ciò che è meglio per la tua famiglia? Per il villaggio?»

«Stai minacciando mia moglie e mio figlio?», bisbigliai.

LTmpalatore sorrise in modo estremamente lieve e disse:

«Non servirebbe a nulla minacciare te, Arkady. Sei troppo pieno di romantiche idee di eroismo e sacrificio di se stessi».

Guardai quegli occhi di giada, sapendo che ero veramente libero dal loro potere ipnotico, e che l’Impalatore diceva la verità sul fatto che la mia mente mi apparteneva. Non sapevo spiegarmi la restituzione della mia volontà, tranne che lo avesse permesso per una sua contorta nozione di onore.