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«Se io accetto… mi porterai da Mary? Giurerai di non fare del male a lei o al bambino?», gli chiesi.

V. annuì con solennità.

«Finché tu terrai fede al Patto… anch’io lo farò».

Benissimo, allora; per amore di Mary, decisi che potevo giocare quel gioco ancora quanto bastava per liberare i Mueller dalla maledizione dello strigoi. In effetti, se V. non li avesse liberati, io ero obbligato a provvedere che essi non si rialzassero.

Presi da lui il palo e il martello. V. voltò il corpo di Herr Mueller in modo che il viso guardasse ciecamente il soffitto scuro, e poi il mostro fissò il suo sguardo penetrante su di me, con gli occhi ardenti di un’empia luce.

Con le mani tremanti, misi il palo in modo che intaccasse la grigiastra carne bianca del petto dell’uomo, proprio sopra il cuore e poi sollevai il martello sopra la testa e, con un colpo forte e sonoro, lo conficcai.

Il corpo di Mueller sobbalzò privo di energia, senza vita, poi si dimenò, riportato improvvisamente in vita da uno scatto di spaventosa energia. Nello stesso istante, le sue labbra grigie si aprirono per emettere un urlo così acuto che io indietreggiai e feci cadere il martello, completamente privo di forze.

«È vivo!», gridai con orrore.

«Non lo sarà ancora per molto!».

V. riprese il martello e con esso indicò la miserevole creatura sul tavolo. Il mio primo colpo aveva conficcato per pochi centimetri il palo nel cuore; era impossibile, quindi, per chiunque, sopravvivere a una ferita così mortale per più di qualche secondo.

«Guarda come soffre! Sbrigati… liberalo da questo dolore!».

Singhiozzai e rimasi paralizzato, incapace di tollerare la vista di tale agonia, incapace di uccidere.

Poi Mueller emise un lamento troppo pietoso per essere sopportato da cuore umano.

«Ancora!», insistette V., gettandomi il martello. «Più forte! Presto!».

Afferrai il martello e colpii ancora. Mueller si dimenò come un grosso pesce morente e urlò.

Battei ancora e ancora, contorcendo il viso, con le lacrime che mi scendevano lungo le guance. Ancora, finché il pover’uomo rimase immobile e il palo fu ben conficcato nel petto… eppure, non aveva versato una goccia di sangue. Fissando i suoi lineamenti contorti, non riuscii a pensare a nient’altro che a Jeffries mentre sceglievo la lama più grossa, più spessa, tra gli arnesi e mi accingevo al macabro incarico di separare la testa dal tronco.

Fu un lavoro orribile, rivoltante, e non riesco a descriverlo qui nei dettagli. Ma fu anche rivoltante la luce anormalmente vivida negli occhi di V. mentre mi osservava eseguire il compito.

Poi arrivò il momento di fare lo stesso con Frau Mueller. Per pudore, abbassai gli occhi e li volsi il più possibile mentre mettevo il palo tra i suoi seni. Pregai che lei fosse, a differenza del suo sfortunato marito, veramente morta; dopotutto, V. non aveva impedito a Zsuzsanna di continuare a bere perché la ragazza era morta?

Rassicurandomi in questo modo, battei ancora, e piansi forte quando anche lei ritornò in vita e gridò in maniera straziante come suo marito. Seppi allora che V. mi aveva intenzionalmente ingannato per quel terribile fine.

«Che sfortunati», mormorò, quando tutto fu finito e entrambi i corpi furono decapitati. «Sembra che fossero tutti e due vivi. Ma come può essere accaduto?».

Potei soltanto guardarlo con odio. Si aspettava che, avendo versato sangue una volta, fossi corrotto e facessi qualunque cosa chiedesse?

«Ho fatto quello che mi hai chiesto», dissi gravemente. «Ora portami da mia moglie».

«Benissimo», rispose, e mi condusse verso un’entrata nascosta dietro il trono.

Questa si apriva su uno stretto passaggio scuro, che conduceva a una pesante porta di legno, da cui provenivano, molto debolmente, le grida di dolore di mia moglie. V. mise la mano sulla porta, poi esitò e si voltò a guardarmi con un mezzo sorriso.

«Ti sei comportato ammirevolmente, Arkady. Ma c’è ancora una piccola cosa. Ho un visitatore inaspettato che, secondo la sua lettera, sta aspettando a Bistritz dall’alba che arrivi il mio calesse, ma Laszlo questa mattina era indisposto», e qui sorrise apertamente, «ed ora lo è ancora di più. Potresti…?»

«Non posso lasciare Mary! E non dormo da giorni…».

V. annuì con grazia.

«Allora domattina? Dopo che avrai avuto tempo di dormire? Solo questa cosetta e poi potrai restare con tua moglie quanto desideri…».

Percepii l’allusione minacciosa nel suo tono. In quel momento, riuscivo a malapena a tollerare di udire i gemiti di mia moglie: non riuscivo a pensare a qualcosa che mi trattenesse dall’essere al suo fianco sapendo che era così vicina, e così acconsentii stancamente.

«Sì, sì, naturalmente… andrò domattina».

«Eccellente».

Il sorriso di V. si allargò rivelando i denti; poi si voltò e aprì la porta.

La camera era senza finestre, piccola e, come il suo padrone, piena di uno scintillio che sapeva di decomposizione, adorna di ragnatele, ricoperta di polvere, ma munita con magnificenza di candelabri d’oro, di cristalli lavorati, e con un grande letto a baldacchino dalle tende di luccicante broccato dorato. Dunya sedeva accanto al letto su uno sgabello di velluto e, quando la piccola cameriera alzò gli occhi per guardarci, il suo sguardo divenne inespressivo, vuoto, nell’incontrare quello di Vlad.

Rabbrividii, incapace di nascondere il disgusto e lo sgomento alla rivelazione che V. l’aveva usata per tradirci. Egli vide la mia espressione, e il sorriso ironico ritornò sulle sue labbra.

«Ora ti lascerò alla tua intimità in questa importante occasione», disse, e se ne andò, chiudendosi dietro la porta.

Sul letto giaceva mia moglie, in preda alle doglie, con i capelli dorati bagnati e resi scuri dal sudore, il viso arrossato dallo sforzo. Andai subito da lei, le presi le mani, e insieme piangemmo.

«Non possiamo fidarci di lei», disse Mary tra le lacrime, in inglese. «Il collo… ho visto il collo».

Non guardò nemmeno Dunya, che sedeva accanto a lei con la più innocente delle espressioni, incapace di seguire la nostra conversazione.

«Lui l’ha morsa?», chiesi sommessamente.

Mary annuì e chinò la testa, sopraffatta dal dolore.

Presto i dolori cominciarono veramente. Desideravo fare qualcosa per aiutarla ma, apparentemente, il mio sgomento al vederla preda di quel dolore non faceva che turbarla ulteriormente. Così mi sedetti appena fuori della porta, dove poteva vedermi ed essere rassicurata dalla mia presenza ma non poteva notare la mia espressione tormentata.

Per alcuni istanti, quando le doglie divennero più frequenti e Dunya era indaffarata, scivolai al piano inferiore per accorgermi che le porte che conducevano fuori del castello erano state sprangate dall’esterno.

Così, sedetti fuori dall’elegante prigione di mia moglie, scrivendo tutto questo sulla carta profumata che ho scoperto nella stanza.

Dio mi aiuti, sono due volte un assassino e siamo prigionieri, senza speranza di fuga.

Capitolo tredicesimo

Il diario di Arkady Tsepesh

21 aprile, mezzogiorno. Aggiunta su una pergamena separata. Infine la stanchezza ha avuto la meglio e ho dormito nell’ingresso con il mio diario improvvisato in grembo finché la grigia luce del mattino è filtrata dalla porta aperta. Con il cuore che batteva dalla paura, sono balzato in piedi nel ricordare le circostanze in cui mi trovavo, e sono sfrecciato nella stanza dove mia moglie era confinata.

Il bambino ancora non era nato. Mary era talmente esausta e pallida, con le labbra così grigie, che ne fui spaventato. Dunya, con il volto cupo per la preoccupazione, disse che Mary non doveva muoversi affatto per paura che potesse morire dissanguata. Questo credo che sia vero, e non un suggerimento messo nella sua testa da V; uno sguardo alla mia povera moglie me l’ha confermato.