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Anche così, chiesi a Dunya quanto tempo ancora ci volesse per la nascita. Lei scosse la testa e aprì la bocca per parlare ma non potei udire la risposta a causa degli improvvisi gemiti di dolore di mia moglie.

Quel suono mi fece venire le lacrime agli occhi, poiché sembrò che stesse gridando per il dolore che le avevo causato portandola qui.

Dunya ha visto il mio turbamento (povera bambina: l’orrore di tutto ciò è che si tratta sempre di lei, che ha un buon cuore. Io credo che non sia nemmeno consapevole che V. la controlla), e immediatamente mi ha ordinato di andare in cucina a prendere altre erbe medicinali contro il dolore.

Esitai nel lasciare Mary, ma avevo udito i mormorii dei domestici riguardo al fatto che, di giorno, lo strigoi dorme. Certamente questa era un’abitudine di Vlad, e così capii che Mary era al sicuro… almeno per il momento.

Felice di essere d’aiuto, andai al piano inferiore e, nel farlo, scoprii che all’entrata principale era stato tolto il paletto e che era stata spalancata durante la notte. Il cielo mattutino era grigio, pieno di nuvole minacciose; l’aria aveva l’odore della pioggia imminente. Fuori, vicino alle scale principali, cavalli e calesse erano in attesa. Quella vista mi portò felicità e terrore: felicità perché c’era una possibilità di fuggire; terrore, perché ricordai la promessa di andare a prendere il nuovo visitatore a Bistritz.

Uscii nel cortile. I cavalli erano riposati e puliti, nonostante il fatto che i domestici fossero scomparsi dal castello. Mentre li guardavo pieno di meraviglia, mi sentii spingere da vari impulsi in quattro direzioni diverse.

Per prima cosa, ebbi il desiderio di fuggire, di portare la mia sofferente moglie giù per le scale e andarmene al galoppo nel calesse, nonostante ciò fosse rischioso per lei; secondo, desiderai andare a Bistritz per avvertire il visitatore di ritornare da dove era venuto.

Terzo, desiderai andare a Bistritz, prendere il visitatore, e lasciarlo nelle mani di V., sapendo che questo avrebbe comprato la sicurezza di mia moglie e della mia famiglia. Che cos’era un’altra morte quando il sangue dei Mueller era già sulle mie mani inconsapevoli?

Ma se la leggenda che il Vampiro dormiva di giorno era vera, allora non avevo bisogno di fare nulla di ciò che avevo pensato: dovevo solo uccidere V. mentre dormiva. Conoscevo il metodo e ne avevo i mezzi.

Presi la decisione proprio mentre la morbida luce del sole cominciava a bruciare tra la nebbia, sospesa sul terreno. Quando mi parve che i bianchi vortici accanto a me divenissero solidi, li considerai un trompe l’oeil che nasceva dalla stanchezza e non vi prestai attenzione finché udii una voce familiare, agitata, bisbigliare:

«Kasha…!».

I cavalli sbuffarono e batterono le zampe.

Alzai lo sguardo. Vidi Zsuzsa che stringeva le pieghe degli indumenti funebri intorno a sé, come un mantello di nebbia. Sembrava più giovane, una donna di appena vent’anni. Il suo corpo era ancora diritto, ancora perfetto, ancora in possesso di una bellezza ultraterrena ma, nella luce del giorno, la sua soprannaturale radiosità era offuscata. Si avvicinò con movenze graziose ma così del tutto umane che il dolore mi strinse la gola. Fissai i suoi impressionanti occhi pieni di fascino ma non più lontani e predatori; restava un accenno della lucentezza dorata, ma la tinta dominante era marrone chiaro… il colore degli occhi della mia cara, defunta sorella.

Le sue guance erano bagnate di lacrime.

«Oh, Zsuzsa», bisbigliai, e chiusi gli occhi. Quando li riaprii, la visione rimase. Barcollai, improvvisamente preso da vertigini.

«Kasha», disse in fretta, e mi prese per il polso; rabbrividii al suo tocco freddo e vidi che anche lei rabbrividiva… alla vista del crocifisso di Ion, che avevo tirato fuori con la mano libera dalla tasca e che avevo messo sul palmo aperto. Indietreggiò immediatamente, come se la mia pelle l’avesse bruciata come vetriolo. «Ti ho aspettato per andare dove lui non possa udire. Kasha, ti devo parlare subito! Noi ti dobbiamo salvare: tu non sai i suoi progetti! Ma andiamo all’ombra; la luce mi fa male».

Mi raddrizzai, insicuro; fece un gesto come per aiutarmi, ma fu forzata dal crocifisso a mantenere le distanze. Insieme camminammo nell’ombra gettata dal castello e lì lei allungò le braccia per abbracciarmi, poi le abbassò, impotente per la presenza del crocifisso. Ma non avvertii da parte sua alcun tentativo di ipnotizzarmi.

«Kasha», ripeté, con una voce bassa che tremava di disperazione.

«So che eri là la notte scorsa. Hai visto che mi nutrivo…».

«Ti ho visto uccidere una donna», dissi.

Abbassò gli occhi. Non incontrò il mio sguardo, ma non c’era traccia di colpa nella sua voce, nella sua espressione quando disse:

«Sì, ma non avevo scelta. Non puoi immaginare la fame, il dolore; non ero me stessa. Non ero affatto me stessa, ma ora sono ciò che sono e non posso cambiare. Non dico queste parole per ingannarti, ma perché voglio aiutarti: Kasha, devi permettermi di morderti. Devi permettermi di farti diventare ciò che io sono! È l’unico modo; altrimenti, quello che è accaduto al povero papà accadrà anche a te!».

Alzai il crocifisso e lo tenni davanti al suo viso, chiedendomi se fosse efficace — quindi i racconti dei contadini sono veri! — e desiderando di aver pensato ad usarlo la notte precedente, per salvare Frau Mueller dalla creatura che mi stava dinanzi.

Fece una smorfia e si tirò indietro, alzando le braccia come temendo che avrei potuto colpirla, ma non mostrò rabbia.

«Ritorna indietro», ordinai. «Ritorna da lui, mostro. Mia sorella è morta».

Emise un solo singhiozzo ma rimase dov’era, sebbene la vicinanza della croce chiaramente la tormentasse. Quando ebbe ripreso un certo grado di controllo e si fu asciugata gli occhi con il bordo della sua veste funebre disse, con una voce decisa, che non le avevo mai udito usare quando era viva:

«Io sono tua sorella, Kasha. Sì, sono una morta vivente… ma sono sempre Zsuzsa. Devi capirlo; Vlad è sempre stato com’è, un crudele tiranno. La morte e l’immortalità hanno cambiato lui… e anche me, ma poco. Non ti meravigli che io sia venuta ora, di mattina, quando lui non lo hai mai visto?».

Non ebbi risposta a questo, poiché, infatti, ero stupito. Il mio silenzio le procurò una lieve soddisfazione.

«Lui si può muovere di giorno, se l’emergenza lo richiede», continuò, «ma la luce è molto fastidiosa e a lui non piace, poiché i suoi poteri sono grandemente ridotti. Lui deve riposare per una parte delle ventiquattro ore, di più quando si è nutrito, e così, il più delle volte, sceglie di riposare di giorno. Ma io mi sono nutrita e riposata la notte scorsa, e ti appaio adesso nel momento in cui sono più vulnerabile come segno di fiducia. Oh, sono ancora più forte di te e potrei provare a controllarti… ma non lo farò. Arkady, devi ascoltarmi e credermi!».

Il suo tono era di angosciata sincerità e non potevo negare che non stesse cercando di ipnotizzarmi, come aveva fatto la prima notte che si era alzata. Così chiesi:

«Ascoltare e credere cosa?»

«La verità». Il suo viso si contorse dal dolore. «Lui non ci ama. Oh, Kasha, lui non ci ha mai amato! Io pensavo, quando venne da me, che faceva così perché provava dei sentimenti… ma è stata tutta una bugia. Allora mi controllava, mi faceva sentire e credere delle cose e, anche quando bevvi il suo sangue…».

A questo punto, perse la sua compostezza, abbassò il viso nelle mani e pianse; i suoi capelli neri, liberi adesso da ogni traccia d’argento, le caddero in avanti sotto il velo bianco. «Quando bevvi il suo sangue, seppi tutto ciò che lui sapeva. Appresi allora le condizioni del Patto…».