Sotto l’osservazione di quegli occhi verde scuro, provai un’improvvisa confusione, come se la capacità della mia mente di vedere la realtà vacillasse per un istante, come le candele. Un nuovo pensiero sostituì quello precedente, ma mi parve quello di un’estranea, non il mio: “Sicuramente stai facendo un grosso errore. Guarda: lui l’ama semplicemente come una figlia…”.
Quegli occhi mi attiravano come un vortice. Mi sentivo stranamente attirata, stranamente respinta. Il battito del mio cuore aumentò — se per l’eccitazione o per il terrore, devo ancora deciderlo — e il bambino, dentro di me, si mosse. Istintivamente, misi una mano sul mio ventre gonfio e lui, allora, si avvicinò a me, mi prese l’altra mano e si chinò per baciarla.
Il suo tocco era talmente simile al ghiaccio che lottai per non rabbrividire — ma senza riuscirci — quando sentii le sue labbra aprirsi e la sua lingua scivolare con leggerezza sul dorso della mia mano, come se stesse assaggiando la mia pelle, nel modo in cui potrebbe fare un animale. Poi si raddrizzò, e di nuovo vidi una scintilla di appetito in quegli occhi degni di un incantatore di serpenti.
“Ma ti stai sbagliando…”, mi dissi ancora.
«Cara Mary», cominciò, in un inglese fortemente accentuato, con una voce così cantilenante, così musicale, così estremamente affascinante, che io mi sciolsi immediatamente, e provai un’ondata di enorme colpa per aver potuto pensare cose terribili di quel vecchio veramente gentile e generoso. Poi mi guardò il ventre, con lo stesso estremo desiderio…
O era amore estatico?
«Cara Mary, che bello conoscerti!». Teneva ancora la mia mano tra le sue due, enormi e fredde. Non volevo niente altro che liberarla e pulirne il dorso sulla mia gonna, ma rimasi educatamente immobile, mentre il suo sguardo mi osservava intensamente. «Arkady aveva ragione a dire che sei molto bella; occhi come zaffiri, capelli come l’oro. Un gioiello di donna!».
Arrossii e balbettai goffamente dei ringraziamenti. Le sue parole mi colpirono come se fossero apertamente inclini a un flirt, ma Zsuzsanna e Arkady ci guardavano con sorrisi di approvazione, come se il comportamento del loro prozio non fosse quello di un libertino, ma del tutto appropriato. Decisi che, forse, i modelli di comportamento della Transilvania e della Gran Bretagna erano completamente diversi.
Avendo raggiunto il massimo della sua capacità di parlare inglese — apparentemente il suo poetico complimento era stato attentamente preparato — Vlad tornò al rumeno e Arkady tradusse:
«Che bello incontrarti, finalmente! Ti ringrazio di cuore per la fresca gioia che hai portato nella nostra famiglia. Come ti senti dopo il lungo viaggio?»
«Piuttosto bene, Signore», risposi, e rimasi in ascolto degli strani suoni sibilanti che Arkady usò per riportare la mia risposta a Vlad. Ho studiato un po’ di francese e un po’ di latino, e riuscivo a indovinare alcune parole. In realtà, non mi sentivo del tutto bene, ma all’improvviso venni presa dalle vertigini, e non desideravo altro che sedermi.
«Benissimo!», rimarcò Vlad con vigore. «Dobbiamo prenderci cura attentamente di te, e far sì che tu stia sempre bene, poiché sei la madre dell’erede dei Tsepesh».
Per il resto della sera, Vlad parlò in rumeno e Arkady tradusse, sebbene, di tanto in tanto, comunicassimo l’un con l’altro direttamente, in un tedesco incerto. Per amore di convenienza, registrerò la nostra conversazione come se si fosse svolta interamente in inglese.
Lo ringraziai per le sue gentili lettere, e ci scambiammo i più cortesi commenti, poi prendemmo posto al tavolo della cena. Il cane, Bruto, che era rimasto accucciato ai piedi di Zsuzsanna, ringhiò molto ingenerosamente verso Vlad, poi sgusciò via dalla stanza e non riapparve per il resto della serata.
Eppure Vlad dimostrò di essere tanto affascinante quanto spaventoso. Tenne un piccolo discorso sul defunto nipote, così toccante e veramente sentito, che tutti noi avemmo le lacrime agli occhi. Poi fu servita la cena, durante la quale ogni persona raccontò delle storie affettuose su Petru, e furono fatti molti brindisi. Finsi di bere soltanto qualche sorso, poiché bere vino, in generale, non mi piace, e ancor meno da quando sono incinta.
Durante i brindisi, la mia attenzione fu catturata dal fatto che Vlad portava il bicchiere alle labbra ma fingeva soltanto di bere, né mangiava, sebbene sollevasse la forchetta in parecchie occasioni. Alla fine della serata, sia il suo vino che il suo cibo non erano stati assolutamente toccati. Ancora più sorprendente fu il fatto che né i domestici né la famiglia sembravano averlo notato.
Mi sentii certa che la famiglia la tollerasse semplicemente come un’altra delle eccentricità del Principe ma quando, più tardi, lo accennai timidamente ad Arkady, lui mi sembrò pensasse che stessi scherzando. Ma era naturale che lo zio avesse mangiato la cena: lui l’aveva visto mangiare e bere con i suoi stessi occhi!
Questo mi sembrò incredibilmente strano, ma non gli dissi null’altro, per non far sì che mi considerasse pazza o in preda all’immaginazione a causa della gravidanza.
È l’inizio della follia se penso di essere l’unica sana di mente?
A un certo punto, durante la cena, Vlad tirò fuori una lettera per Arkady e parve estremamente ansioso che lui gliela traducesse, poiché era scritta in inglese. Sembrava che fosse di un gentiluomo britannico che aveva progettato, prima della morte di Petru, una visita alla proprietà. Pensai che il momento fosse inopportuno, considerando la solenne circostanza, ma Arkady gliela tradusse di buon grado, promettendogli poi di aiutarlo a scrivere la risposta. Vlad si rivolse sorridendo verso di me e disse:
«Tutti e due dovrete aiutarmi ad imparare l’inglese!».
Lusingata, replicai:
«E lei mi dovrà aiutare a imparare il rumeno».
«No», disse Vlad, «questo non sarà necessario».
Infatti era sua intenzione, ora che Petru se n’era andato, di fare un viaggio in Inghilterra. Petru si era sentito legato a quella terra, spiegò, ma, per quanto lo riguardava, lui amava muoversi. La Transilvania era un paese superstizioso, arretrato e piccolo, e il villaggio stava diventando un posto del tutto isolato, ora che molti contadini se ne andavano nelle città. Sentiva di non poter più fare affidamento sull’occasionale svago fornito dai visitatori, i quali raccontavano tutti delle storie di come il mondo oltre la foresta stesse cambiando rapidamente, molto rapidamente.
«Meglio tenersi al passo con quei cambiamenti», disse con allegria, «che languire qui nell’isolamento. Sopravvivono soltanto coloro che si adattano alle necessità dei tempi!».
Il viaggio, si affrettò ad aggiungere, avrebbe avuto luogo entro un anno circa, dopo che il bambino fosse nato e fosse stato abbastanza grande per viaggiare. E per quel momento lui sarebbe stato in grado di parlare piuttosto bene l’inglese.
«Bene», dissi io, pensando che l’inclinazione di Arkady per i viaggi fosse chiaramente ereditaria, «certamente mi sentirei contentissima e privilegiata di servirla come sua maestra e guida turistica ma, quando ritorneremo in Transilvania, mi sarà d’aiuto conoscerne la lingua».
«Ah», rispose, «ma questa non è la mia intenzione. Io intendo trasferirmi, forse permanentemente, in Inghilterra… sebbene, naturalmente, ritornerò di tanto in tanto per delle visite, dettate dalla nostalgia, alla proprietà di famiglia…».
A dire la verità, il mio cuore era già felice al pensiero di ritornare a casa ma, al sentire quelle parole, Zsuzsanna si alzò di scatto dalla sedia, in un impeto di rabbia che ci spaventò tutti.
«Io lo vieto!», gridò, in uno strano miscuglio di inglese e di rumeno, come se non sapesse decidere chi dei due — me o Vlad — potesse capire (scrivo qui quello che ritengo sia il senso dell’avvenimento). «Non potete andarvene! Tu sai che io sono troppo debole per viaggiare con te e, se tu mi lasci, io ne morirò!».