Gordon R. Dickson
Il pellegrino
Il cielo primaverile era azzurro e profondo su Aalborg, Danimarca. Nella piazza, intorno alla statua del Toro Cimbriano, la folla era silenziosa; e sul muro di mattoni rossi scoloriti dal tempo, un uomo stava morendo sulla triplice lama, secondo una legge aliena. Le due autorità, giudici ed esecutori di quella legge, sedevano sulle loro cavalcature, impassibili a meno di due lunghi passi dal punto in cui si trovava Shane Evert, tra la folla di uomini a piedi.
— Figlio mio — stava dicendo il più vecchio e massiccio dei due al più giovane, nella pesante lingua Aalaag, del tutto ignaro che là vicino ci fosse un umano che poteva capirlo, — come ti ho detto svariate volte, non c’è creatura che si domi in una notte. Eri stato avvisato che quando viaggi con la famiglia il maschio difende la compagna, e maschio e femmina difendono i loro piccoli.
— Ma, padre mio — disse il più giovane, — non ce n’era motivo. Io ho solo spinto da un lato la femmina con la mia lancia ad energia per impedirle di essere travolta. Intendevo usare una gentilezza, non era una punizione o un attacco…
Le loro parole rombavano nelle orecchie di Shane e si stampavano nella sua mente. Come giganti in forma umana, medievali e fuori posto, i due enormi Aalaag torreggiavano accanto a lui, la limpida luce solare che splendeva sul metallo verde e argenteo delle loro armature, e sulle creature scarlatte, simili a cammelli, che servivano loro da cavalcature. Erano occupati a conversare e a sorvegliare la folla di umani in questa esecuzione pubblica autorizzata. Guardavano appena l’uomo che avevano infilzato sulle lame.
Pietosamente, sia per lui che per gli umani obbligati ad assistere alla sua morte, il danese condannato era stato paralizzato dalla lancia ad energia degli Aalaag prima di essere gettato sui tre affilati pali di metallo che sporgevano dal muro, a tre metri e mezzo dal suolo. Le lame lo avevano trafitto mentre era ancora privo di conoscenza; ed immediatamente era entrato in coma. Così ora non era cosciente della sua morte; né di sua moglie, la donna per cui aveva meritato la condanna, che giaceva morta sotto di lui alla base del muro. Adesso anche lui era quasi morto. Ma finché era ancora in vita tutti quelli nella piazza erano obbligati ad osservare, secondo la legge Aalaag.
— … Nonostante ciò — stava ribattendo il padre alieno, — il maschio ha equivocato. E quando la mandria commette errori, il padrone ne è responsabile. Tu sei responsabile della morte di questo e della sua femmina — che è stata necessaria, per mostrare che noi non sbagliamo mai, e non dobbiamo mai essere attaccati da coloro che abbiamo soggiogato. Ma la responsabilità è tua.
Sotto il sole sfolgorante, il metallo che ricopriva la coppia di alieni scintillava, antico e primitivo come la statua di bronzo del toro o le lame che sporgevano dal modesto muro di mattoni. Ma d’ora in poi gli spettatori umani avrebbero imparato bene a non lasciarsi ingannare dalle apparenze.
La tradizione, e qualcosa di simile alla superstizione tra gli irreligiosi Aalaag, li aveva indotti a conservare le armi e l’armatura di un periodo della loro storia già antico e perduto da più di cinquantamila anni terrestri, sul pianeta che aveva generato questi conquistatori dell’umanità alti due metri. Ma le loro vesti ed armi arcaiche erano solo un fatto esteriore.
Il vero potere dei due osservatori non era nelle loro spade o nelle lance ad energia; ma nelle bacchette nere e dorate che portavano alle cinture, nelle pietre degli anelli ai loro indici massicci, e nel piccolo orifizio sul pomo della sella, sempre in movimento, che oscillava tra la folla a destra e a sinistra senza posa.
— … Allora è vero. La colpa è mia — disse il figlio Aalaag umilmente. — Ho sprecato dei buoni sudditi.
— È vero, sono stati sprecati dei buoni sudditi — rispose il padre. — Sudditi innocenti che originariamente non avevano intenzione di sfidare la nostra legge. E per questo pagherò una multa, perché io sono tuo padre ed è colpa mia se hai commesso un errore. Ma tu mi ripagherai cinque volte tanto, perché il tuo errore è più grave della perdita di buoni sudditi.
— Più grave, padre?
Il viso di Shane rimase assolutamente immobile, celato dall’ombra del cappuccio del suo mantello da pellegrino. I due non potevano sospettare che uno della mandria di Lyt Ahn, il Governatore Aalaag della Terra Intera, si trovasse a meno della lunghezza di una lancia da loro, in grado di cogliere ogni parola che essi si scambiavano. Ma era saggio non attrarre la loro attenzione. Un padre Aalaag in genere non rimprovera il figlio in pubblico, o in presenza di sudditi che non appartengono alla sua casa. Le poderose voci continuavano a rombare, e il sangue a ronzare nelle orecchie di Shane.
— Molto più grave, figlio mio…
La vista della figura sulle lame davanti a lui nauseava Shane. Aveva cercato di allontanarla da sé con una delle sue fantasticherie private — l’immagine che aveva evocato era quella di un fuorilegge umano che nessun Aalaag poteva catturare o sconfiggere. Un umano che girava il mondo nell’anonimato, come Shane, in vesti da pellegrino; ma, a differenza di Shane, vendicandosi con gli alieni per ogni torto fatto a uomo, donna o bambino. Comunque, messa di fronte alla sanguinosa realtà sul muro davanti a lui, la fantasia aveva fallito. Ora, però, con la coda dell’occhio aveva visto qualcosa che momentaneamente aveva escluso quella realtà dalla sua mente, facendogli provare un brivido di irragionevole trionfo.
A circa quattro metri di distanza, oltre e ben al di sopra di lui e dei cavalieri sulle grandi bestie, il ramo inclinato di una quercia spingeva la sua punta quasi sulla linea immaginaria tra gli occhi di Shane e l’uomo trafitto; e all’estremità del ramo, tra le nuove foglie verdi, c’era una piccola forma a bozzolo, già rotta. Da essa era appena uscita con grandi sforzi la sagoma ancora accartocciata di una farfalla che ancora ignorava la funzione delle ali.
Come avesse fatto a superare l’inverno qui era impossibile dirlo. Teoricamente, gli Aalaag avevano sterminato tutti gli insetti in paesi e città. Ma eccola qui: una farfalla della Terra nata a dispetto di tutto e tutti, mentre un uomo della Terra stava morendo — una piccola vita per una più grande. Un senso di trionfo assolutamente sproporzionato echeggiava in Shane. Ecco una vita che era sfuggita alla sentenza di morte degli alieni e sarebbe sopravvissuta nonostante gli Aalaag — cioè, se i due che ora montavano la guardia sulle loro grandi cavalcature non l’avessero notata mentre agitava le ali, asciugandole per volare.
Non dovevano accorgersene. Con discrezione, confuso tra la folla col suo rozzo e grigio mantello da pellegrino e il bastone, indistinguibile tra gli altri umani trasandati, Shane scivolò sulla destra verso gli alieni, fino a che la punta del ramo con la farfalla appena nata non si trovò esattamente fra lui e l’uomo sul muro.
Era superstizione, magia… chiamatela come volete, era il solo aiuto che poteva dare la farfalla. Il pericolo per la piccola vita che stava sbocciando sulla punta del ramo, in forza di qualsiasi giustizia cosmica, doveva essere scongiurato dalla vita più grande che stava terminando per l’uomo sul muro. L’una avrebbe pareggiato l’altra. Shane fissò la sagoma più vicina della farfalla in modo da offuscare la figura più lontana dell’uomo sulle lame. Stava facendo un patto col destino. Non batterò ciglio, si disse; e la farfalla resterà invisibile agli Aalaag. Vedranno solo l’uomo…
Accanto a lui nessuna delle due massicce figure rivestite di metallo aveva notato il suo movimento. Stavano ancora parlando.
— … In battaglia — diceva il padre, — uno di noi vale quanto un migliaio di uomini come questi. Non saremmo nulla, se non fosse così. Ma anche se uno è superiore a mille, non ne consegue che i mille manchino di forza, contro uno. Non ti aspettare nulla, quindi, e non sarai deluso. Anche se ora è nostra, dentro di sé la massa resta la stessa di quando l’abbiamo conquistata. Animali, non ancora ammaestrati al dovuto amore per noi. Mi capisci, adesso?