— No, padre mio.
La gola di Shane bruciava; e i suoi occhi si annebbiarono, così che riuscì appena a intravedere la farfalla che si aggrappava con forza al suo ramo per poi cedere alla fine all’impulso istintivo di asciugare in tutta la loro estensione le sue ali umide e ripiegate. Queste si aprirono, arancioni, nere e marroni — quasi fosse un presagio, si trattava di quella specie di farfalla sub-artica chiamata «Pellegrino» — proprio come «Pellegrino» era chiamato Shane, a causa del mantello col cappuccio che indossava. Gli tornò in mente quel giorno di tre anni prima all’università del Kansas. Ricordò che si trovava nella sala dei convegni, tra la folla degli altri studenti e professori, ad ascoltare il comunicato che annunciava che la Terra era stata conquistata, prima che qualcuno di loro avesse avuto il tempo di rendersi conto che esseri di un altro pianeta erano sbarcati sulla Terra. Allora, non aveva provato altro che eccitazione, forse mista ad un senso di apprensione tutt’altro che sgradevole.
— Qualcuno di noi dovrà pur fare l’interprete con gli alieni — aveva detto agli amici allegramente. — Gli specialisti del linguaggio come me… be’, avremo parecchio lavoro.
Ma non era stato con gli alieni; era stato per gli alieni, per gli Aalaag stessi, che era stato necessario far da interprete — e lui, si era detto Shane, non aveva la stoffa del combattente clandestino. Solo che… negli ultimi due anni… Quasi direttamente sopra di lui, la voce dell’Aalaag più anziano continuava a rombare.
— … Conquistare è niente — diceva il vecchio Aalaag. — Chiunque abbia potere può conquistare. Noi governiamo… che è un’arte più grande. Governiamo perché alla fine cambiamo la natura stessa dei nostri sudditi.
— La cambiamo? — fece eco il più giovane.
— La modifichiamo — disse il più anziano. — Nel corso delle generazioni insegnamo loro ad amarci. Li addomestichiamo per farne un buon gregge. Sempre bestie, ma piegate all’obbedienza. Per questo fine conserviamo le loro leggi, religioni, usanze. Solo una cosa non tolleriamo — il concetto di sfida alla nostra volontà. E col tempo vengono addomesticati a questo.
— Ma… sempre, padre mio?
— Sempre, ti dico! — La grande cavalcatura del padre spostava di continuo il suo peso sugli zoccoli, allontanando Shane di qualche centimetro. Lui si spostò di lato, ma continuò a fissare la farfalla. — Quando siamo arrivati, qualcuno ha osato combatterci… ed è morto. Più tardi, altri come quest’individuo sul muro, ribelli… e sono morti anch’essi. Solo noi sappiamo che è il cuore della bestia che alla fine deve essere schiacciato. Così prima insegnamo loro la superiorità delle nostre armi, poi del nostro corpo e della nostra mente; infine quella della nostra legge. Alla fine, privati di tutto ciò che essi possedevano, senza nulla a cui aggrapparsi, i loro cuori si incrinano; ed essi ci seguono senza pensare, amando e fidandosi ciecamente, come cuccioli dietro la loro madre, incapaci persino di immaginare una ribellione alla nostra volontà.
— E tutto ciò è bene?
— Tutto è bene per mio figlio, suo figlio, e il figlio di suo figlio — disse il padre. — Ma fino a quel lieto giorno in cui il cuore della massa non sarà schiacciato, ogni piccola scintilla della fiamma della ribellione ritarda l’arrivo del loro definitivo ed assoluto amore per noi. Qui, inavvertitamente, hai permesso a quella fiamma di ravvivarsi ancora una volta.
— Ho sbagliato. In futuro eviterò simili errori.
— Non mi aspetterò nulla di meno — disse il padre. — E adesso, l’uomo è morto. Proseguiamo.
Spronarono le loro cavalcature e si allontanarono. Intorno a loro la folla degli umani sospirò per l’allentarsi della tensione. Sulla lama tripla, la vittima ora pendeva immobile. Gli occhi erano fissi, mentre penzolava senza un sussulto o un suono. Le ali della farfalla, che stavano asciugandosi, si agitavano lentamente. Tra il viso di Shane e quello del morto. Senza preavviso, l’insetto si alzò come un’ombra colorata e svolazzò via, librandosi sulla piazza nella luce abbagliante del sole fino a che Shane le perse di vista. Un senso di vittoria esplose dentro di lui. Sottrai un uomo, pensò con un pizzico di follia. Aggiungi una farfalla — un piccolo Pellegrino per sfidare gJi Aalaag.
Intorno a lui la folla si stava disperdendo. La farfalla era scomparsa. Il febbrile sollievo per la sua fuga si raffreddò, e Shane osservò la piazza. Gli Aalaag, padre e figlio, la avevano già percorsa a metà, diretti più avanti, verso una strada che portava fuori città. Una delle poche nuvole in cielo passò davanti al disco solare, smorzando la luce nella piazza. Shane sentì un fresco alito di vento sulle mani e sul viso. Intorno a lui, ora, la piazza era quasi vuota. In pochi secondi sarebbe rimasto solo con il morto e il bozzolo vuoto che aveva generato la farfalla.
Guardò ancora una volta il cadavere. Il viso era immobile, ma la leggera brezza agitava qualche ciocca dei lunghi capelli biondi che penzolavano sciolti.
Shane rabbrividì per l’improvviso raffreddarsi del vento e la scomparsa del sole. Il suo morale scese vertiginosamente e precipitò nel dubbio e nella paura. Ora che tutto era finito, sentiva dentro di sé un tremito, ed un senso di nausea… aveva visto troppe esecuzioni degli alieni in questi ultimi due anni. Non osava ritornare al Quartiere Generale Aalaag nello stato in cui si trovava.
Avrebbe dovuto informare Lyt Ahn dell’incidente che aveva ritardato i suoi doveri di corriere; e mentre lo diceva non avrebbe dovuto tradire in nessun modo i suoi sentimenti naturali verso quanto aveva visto. Gli Aalaag esigevano che i loro sudditi privati fossero come loro — spartani, insensibili al dolore proprio e degli altri. I sudditi umani che lasciavano trasparire le loro emozioni, in termini Aalaag erano «malati». Se il padrone Aalaag avesse ospitato nella sua casa qualche creatura malata, questa avrebbe intaccato la sua reputazione — anche se era Governatore di Tutta la Terra.
Shane poteva finire anche lui sulle lame, nonostante la simpatia che Lyt Ahn sembrava dimostrargli a livello personale. Doveva riprendere il controllo delle sue emozioni, e il tempo a disposizione era poco. Al massimo poteva rubare mezz’ora in più dal suo programma, in aggiunta al tempo già perso per assistere all’esecuzione — e in quei trenta minuti doveva cercare di ricomporsi. Si voltò, dirigendosi verso una strada alle sue spalle che l’avrebbe portato lontano dalla piazza, seguendo gli ultimi resti della folla.
Una volta la strada era stata una via di piccoli negozi, intervallati da qualche grande magazzino o qualche centro commerciale. Fisicamente non era cambiata. Sui marciapiedi e sull’asfalto non c’erano né crepe né rifiuti. Le vetrine dei negozi erano intatte, ma non vi erano merci in mostra. Gli Aalaag non tolleravano sporcizia o macerie; avevano spazzato via con eguale efficienza ed imparzialità i quartieri popolati delle grandi città e le rovine del Partenone ed Atene; ma il livello di vita permesso a gran parte dei loro sudditi umani era il minimo bastante a vivere, anche per quelli capaci di lavorare molte ore.
Ad un isolato e mezzo dalla piazza, Shane si infilò in una porta sotto la sagoma ora inerte di quella che era stata l’insegna al neon di un bar. Si trovò in un grande locale tetro che era rimasto pressoché immutato, a parte gli scaffali dietro il banco svuotati dalla moltitudine di bottiglie di liquore che una volta vi facevano bella mostra. Al giorno d’oggi era permesso fabbricare solo piccole quantità di liquore distillato. La gente beveva vino del posto o birra.
In quel momento il locale era affollato, in gran parte da uomini. Tutti erano silenziosi dopo l’episodio nella piazza; e tutti bevevano birra alla spina a sorsi rapidi e abbondanti da boccali di vetro alti e spessi. Shane si fece strada verso il punto di mescita nell’angolo in fondo, dove il barista disponeva i boccali pieni sui vassoi per l’unica cameriera che faceva la spola tra i tavoli e i separé sul retro del bar.