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La neve non scendeva quasi al di sotto dei rami degli alberi. Si stava facendo buio molto rapidamente, pensò, mentre si avvicinava al punto dove il sentiero si divideva, e questa fu l'ultima cosa a cui pensò quando qualcosa gli afferrò la caviglia a mezz'aria e lo fece cadere in avanti. Egli toccò terra sulle mani; stava rialzandosi quando un'ombra alla sua sinistra divenne un uomo, bianco argenteo nella semioscurità, che lo sbatté di nuovo a terra prima ch'egli fosse di nuovo in piedi. Confuso dal ronzio che si sentiva nelle orecchie, Agat riuscì a liberarsi di qualcosa che lo teneva fermo, e di nuovo cercò di alzarsi. Pareva avere perso l'orientamento e non capiva cosa gli succedesse, sebbene avesse l'impressione che fosse accaduto nel passato, e anche quella che in realtà non stesse accadendo veramente. C'erano vari altri uomini dall'aspetto d'argento, con strisce lungo le gambe e le braccia, e lo tennero per le braccia mentre un altro si avvicinò a lui e lo colpi sulla bocca con qualcosa. Dolore; l'oscurità fu piena di dolore e di rabbia. Con una convulsione furiosa e abile dell'intero suo corpo, egli si liberò degli uomini argentei, colpendone uno al mento, con un pugno, e cacciandolo via dalla scena, all'indietro: ma ce n'erano sempre di più, ed egli non riuscì a liberarsi una seconda volta. Lo colpirono, e quando egli nascose la faccia tra le braccia per ripararsi dal fango del sentiero, essi gli colpirono i fianchi, a calci. Egli giacque schiacciato contro il benedetto, innocuo fango, cercando di nascondersi, e udì qualcuno che respirava in modo strano. Attraverso il rumore udì anche la voce di Umaksuman. Anch'egli, dunque… Ma la cosa non aveva importanza, purché se ne andassero, lo lasciassero stare. Si stava facendo buio molto presto.

Era buio: buio pesto. Cercò di strisciare in avanti. Voleva tornare a casa dalla sua gente che l'avrebbe aiutato. Era talmente buio che non riusciva a vedersi le mani. Senza rumore, invisibile nella completa oscurità, la neve cadeva sopra di lui e tutt'intorno, sul fango e le foglie marce. Voleva andare a casa. Aveva un freddo terribile. Cercò di rialzarsi, ma non c'erano ovest ed est, e intorpidito dal dolore riabbassò la testa sul braccio. «Venite da me», cercò di chiamare, nel linguaggio mentale degli Alterra, ma era troppo difficile chiamare fino a quella distanza nel buio. Era più facile rimanere immobile dove si trovava. Nulla poteva essere più facile.

In un'alta casa di pietra di Landin, accanto a un fuoco di legna, Alla Pasfal alzò improvvisamente la testa dal libro che stava leggendo. Aveva la netta impressione che Jakob Agat le trasmettesse qualcosa, ma non le giunse alcun messaggio. Era strano. C'erano moltissimi fenomeni strani, effetti concomitanti o postumi, aspetti inesplicabili che si accompagnavano alla pratica della comunicazione mentale; molte persone, laggiù a Landin, non l'apprendevano mai, e coloro che la conoscevano la usavano con scarsissima frequenza. A nord, nella colonia di Atlantika, avevano l'abitudine di parlare con la mente in modo più libero. Ella era una profuga di Atlantika e ricordava come, nel terribile Inverno della sua infanzia, avesse continuato a parlare mentalmente con gli altri per tutto il tempo. E dopo che sua madre e suo padre erano morti nella carestia, per un'intera fase lunare ella aveva continuato a sentirli trasmettere, a sentire nella mente la loro presenza… ma senza messaggi, senza voce, in silenzio.

— Jakob! — gli trasmise con la mente, a lungo e con intensità, ma non ci fu risposta.

Nello stesso tempo, mentre era nell'Armeria a controllare ancora una volta l'equipaggiamento della spedizione, Huru Dipilota diede improvvisamente voce a un'inquietudine che per tutto il giorno aveva continuato ad aleggiare in lui, e sbottò: — Che diavolo crede di fare, Agat?,

— È molto in ritardo — disse uno dei ragazzi dell'Armeria. — È andato nuovamente a Tevar?

— A cementare le relazioni con le facce imbiancate — disse Dipilota; fece una risatina priva della minima allegria e aggrottò la fronte. — Benissimo, andiamo avanti, controlliamo i parka.

Nello stesso tempo, in una stanza ricoperta di pannelli di legno che sembravano seta color avorio, Seiko Esmit scoppiò silenziosamente in pianto, torcendosi le mani e sforzandosi di non trasmettergli nulla, di non parlargli mentalmente, di non mormorare neppure il suo nome: «Jakob!».

Nello stesso tempo la mente di Rolery divenne completamente buia per un attimo. Rimase accovacciata senza muoversi, là dov'era.

Ella si trovava nella capanna dei cacciatori. Aveva pensato che con tutta la confusione del trasloco dalle tende alle Case Familiari della città, simili a tane, la sua assenza e il suo ritorno molto tardi, la sera prima, non sarebbero stati notati. Ma oggi era diverso: l'ordine era ritornato, e la sua partenza sarebbe stata notata. Perciò era uscita quando la luce del giorno era ancora piena, confidando che nessuno badasse particolarmente alla cosa; si era recata alla capanna facendo un largo giro, si era raggomitolata al suo interno, avvolta nella pelliccia, e aveva atteso che scendesse la notte ed egli infine arrivasse. La neve era cominciata a cadere; l'osservarla le aveva fatto venire sonno; e aveva continuato a osservarla, chiedendosi sonnecchiosamente che cosa avrebbe fatto l'indomani. Perché infatti Agat sarebbe partito. Ed ogni persona del suo clan avrebbe saputo ch'ella era rimasta fuori per tutta la notte. Ma questo riguardava il domani. E il domani si sarebbe risolto da solo. Adesso era l'oggi, l'oggi… ed ella si assopì, finché non si svegliò d'improvviso, con un sobbalzo grandissimo, e rimase accovacciata per un lungo istante, con la mente vuota, buia.

Poi si rizzò in piedi, bruscamente, e con selce e acciarino accese il cestino-lanterna che aveva portato con sé. Alla sua debole luce scese lungo il fianco della montagna finché non incontrò il sentiero, esitò un istante e si diresse a est. Una volta si fermò e disse: — Alterra… — in un bisbiglio. La foresta era perfettamente tranquilla nella notte. Ella avanzò finché non lo trovò, disteso sul terreno battuto.

La neve, che ora cadeva più fitta, formava scie bianche nel debole raggio della lanterna. Adesso aderiva al suolo, invece di sciogliersi, e aveva formato una spolveratura di bianco sul mantello stracciato di lui, e perfino sui suoi capelli. La sua mano, quando ella gliela toccò per la prima volta, era fredda, ed ella seppe che era morto. Si mise a sedere allora nel fango umido, bordato di neve, accanto a lui, e gli sollevò la testa e l'appoggiò sulle ginocchia.

Egli si mosse ed emise una specie di gemito, e con questo Rolery ritornò completamente in sé. Interruppe l'inutile azione di scuotergli via dai capelli e dal colletto la neve simile a polvere, e rimase a sedere immobile per un istante, pensando. Poi lo riadagiò a terra, si alzò in piedi, cercò meccanicamente di sfregacciarsi via dalle mani il sangue appiccicoso, e con l'aiuto della lanterna cominciò a cercare qualcosa, vicino al sentiero. Trovò ciò che le serviva, e si mise all'opera.

Un morbido, debole raggio di sole scendeva nella stanza. Al suo tepore era difficile svegliarsi, ed egli continuò a scivolare indietro, nelle onde del sonno, nel lago profondo e immobile. Ma sempre la luce lo ridestava; e infine fu pienamente sveglio, e vide le pareti alte e grige che lo chiudevano al loro interno e il raggio inclinato del sole che proveniva dai vetri.