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Erano padroni del viadotto, se la cosa poteva rallegrarli. Le sentinelle, dalla Torre della Lega, avevano osservato la loro unica ed esitante incursione diretta all'isola, che era immediatamente finita in una pioggia di lance e in un ponte levatoio sollevato. Pochi di loro erano stati visti avventurarsi sulle spiagge di bassa marea, sotto il promontorio di Landin; probabilmente avevano visto le onde precipitarsi e ruggire, e non avevano idea della frequenza del fenomeno, e di quando si sarebbe ripetuto, poiché erano popoli dell'interno. Cosicché l'Isola era al sicuro, e alcuni dei paraverbalisti esperti della città erano in contatto con l'uno o l'altro di coloro che si erano rifugiati laggiù: quel tanto che bastava per sapere che tutto andava bene e per riferire a qualche genitore preoccupato che nessun bambino era malato. L'isola era a posto. Ma la città era espugnata, invasa, occupata; più di cento dei suoi abitanti erano morti per difenderla, e gli altri erano intrappolati in un pugno di edifici. Una città di neve e di ombre e di sangue.

Jakob Agat era accovacciato in una stanza dalle pareti grige. Era vuota, ad eccezione di un mucchio di feltro stracciato e di vetri rotti su cui si era accumulata una neve sottile. La casa era muta. Laggiù, sotto la finestra dove c'era il materasso, egli e Rolery avevano dormito una notte; Rolery l'aveva destato la mattina. Mentre era laggiù accovacciato, dopo essere penetrato come un ladro nella sua stessa casa, egli pensò a Rolery, con amara tenerezza. Una volta… gli pareva assai addietro nel tempo, forse dodici giorni… Agat aveva detto in questa stessa stanza di non poter vivere senza di lei; ed ora non aveva nemmeno il tempo, né di giorno né di notte, di pensare a lei. Lasciate che pensi a lei adesso, lasciatemi almeno pensare a lei, disse rabbiosamente al silenzio; ma l'unica cosa a cui poté pensare fu che entrambi erano nati nel periodo sbagliato. Nella stagione sbagliata. Non potete cominciare un amore all'inizio della stagione della morte.

Il vento fischiava stizzoso contro le finestre rotte. Agat rabbrividì. Aveva avuto la febbre tutto il giorno, oppure si era sentito gelare. Il termometro continuava a scendere, e numerosi tra i guerriglieri dei tetti avevano dei problemi con quello che i vecchi chiamavano congelamento. Si sentiva meglio se continuava a muoversi. Pensare non serviva a niente. Con abitudine inveterata si diresse alla porta, poi, riprendendo il controllo delle proprie azioni, si recò silenziosamente alla finestra da cui era entrato. Nella stanza al piano terreno della casa accanto alla sua era accampato un gruppo di Gaal. Egli poteva scorgere la schiena di uno di loro, accanto alla finestra. Erano gente dalla pelle chiara; i loro capelli erano scuriti e irrigiditi da qualche specie di catrame o di pece, ma il collo piegato e muscoloso su cui Agat posò lo sguardo era bianco. Era strano come egli avesse avuto, in realtà, ben poche occasioni di vedere il nemico. Si sparava da lontano, o si sferrava un colpo e poi si fuggiva, oppure, come alla Porta del Mare, si combatteva troppo in fretta, troppo vicino per poter guardare. Si chiese se i loro occhi fossero giallastri o ambrati come quelli dei tevarani; aveva l'impressione che invece fossero grigi. Ma non era il momento migliore per sincerarsene. Salì sul davanzale, si afferrò al cornicione e lasciò la propria casa per la via dei tetti.

La solita strada da cui faceva ritorno alla Piazza era bloccata: anche i Gaal avevano imparato il gioco dei tetti. Riuscì a distaccare tutti gli inseguitori con facilità, eccettuato uno che, armato di cerbottana, gli venne dietro anche quando si trattò di fare un salto di due metri e mezzo sul vuoto, fra due case: salto che fermò gli altri. Agat fu costretto a balzare in un vicolo, rimettersi in piedi e correre per salvarsi.

Una sentinella della barricata della Via Esmit, la quale teneva d'occhio la strada nell'eventualità di simili salvataggi, gli gettò una scala di corda, ed egli si affrettò a salire. Proprio mentre raggiungeva la cima, un dardo gli colpì la mano destra. Si lasciò scivolare all'interno della barricata, strappò via il dardo, si succhiò la ferita e sputò. I Gaal non avvelenavano le frecce e i dardi, ma raccoglievano e usavano quelli che gli uomini di Landin scagliavano contro di loro, e molti di questi, ovviamente, erano avvelenati. Era una chiara dimostrazione di una delle ragioni che giustificavano la classica Legge dell'Embargo. Agat ebbe un bruttissimo paio di minuti in cui attese di venire colpito dal primo crampo; poi comprese di essere stato fortunato, e da quel momento in poi cominciò a sentire il dolore della piccola, brutta ferita alla mano. La mano con cui sparava, per di più.

Il pranzo veniva servito in quel momento nella Sala delle Assemblee, sotto gli orologi dorati. Non aveva mangiato dall'alba. Provò una fame rabbiosa, finché non si sedette a uno dei tavoli, davanti a un piatto di bhan caldo e di carne salata; poi non riuscì a mangiare. Non aveva neppure voglia di parlare, ma era meglio che mangiare, e parlò con tutti coloro che si raccolsero attorno a lui, finché non suonò l'allarme della campana, nella torre sopra di loro: un nuovo attacco.

Come sempre, l'assalto passava da una barricata all'altra; come sempre, non fu un grande attacco. Nessuno poteva muovere un attacco prolungato, con quel tempo inclemente. La cosa cercata dai Gaal, in quegli attacchi serali che passavano da un punto all'altro, era la possibilità di far entrare uno o due dei loro uomini da una barricata momentaneamente incustodita, in modo che, una volta entrati nella Piazza, potessero aprire le massicce porte di ferro, sul retro del Palazzo Vecchio. Quando discese l'oscurità, gli attaccanti si dileguarono. Gli arcieri che lanciavano frecce dalle finestre più alte del Palazzo Vecchio e del College cessarono il tiro e, dopo qualche tempo, comunicarono che le strade erano sgombre. Come sempre, alcuni difensori erano feriti o erano morti: un balestriere colpito alla finestra da una freccia scagliata dal di sotto, un ragazzo che, arrampicatosi troppo in alto sulla barricata per colpire sotto di lui, era stato colpito al ventre da una lancia dalla punta di ferro; varie ferite leggere. Ogni giorno alcuni venivano feriti o uccisi, e i difensori e le sentinelle diminuivano. La sottrazione di alcuni dai già pochi…

Di nuovo febbricitante, Agat fece ritorno dopo l'azione. Molti degli uomini che erano intenti a mangiare quando era giunto l'allarme ritornarono indietro e finirono il pasto. Agat a questo punto non aveva interesse per il cibo, salvo quello di evitarne perfino l'odore. La mano ferita riprendeva a sanguinare ogni volta che la usava, e ciò gli offri la scusa per recarsi nella stanza degli Archivi, sotto il Palazzo Vecchio, perché il conciaossa gli bendasse la ferita.

Era una stanza assai ampia, dal soffitto basso, mantenuta a una temperatura costante e illuminata in modo indiretto per tutto l'arco del giorno e della notte: un ottimo posto in cui conservare vecchi strumenti, carte e libri, e un posto altrettanto buono per tenerci dei feriti. I feriti stessi erano distesi su giacigli improvvisati posti sul pavimento ricoperto di feltro: piccole isole di sonno e di dolore sparse nel silenzio della lunga stanza. In mezzo ai giacigli vide sua moglie che veniva verso di lui, come aveva sperato di vedere. La vista, la vera e certa vista di lei, non destò in lui quell'amara tenerezza che provava quando pensava a lei: invece, gli procurò semplicemente un intenso piacere.

— Ciao, Rolery — egli mormorò, e subito si allontanò per rivolgersi a Seiko e al conciaossa Wattock, chiedendo loro come stesse Huru Dipilota. Non sapeva più cosa fare del piacere, esso lo sopraffaceva.

— La sua ferita cresce — disse Wattock, bisbigliando. Agat lo fissò senza comprendere, poi capì che parlava di Huru. — Cresce? — ripeté senza capire, e andò a inginocchiarsi a fianco di Dipilota.

Huru alzava lo sguardo verso di lui.